Pupi Avati a tutto campo, il bar, il cinema, le donne: “Più libero come scrittore che come regista”

Pupi Avati al Festival del giornalismo culturale
di LORENZO CIPOLLA

PESARO – Pupi Avati cattura l’attenzione dei presenti che hanno riempito i tutti posti disponibili del Salone Nobile di Palazzo Gradari di Pesaro, nel corso dell’ultima giornata del Festival del giornalismo culturale.  Il regista bolognese ha dispensato con generosità aneddoti tragicomici e riflessioni dolceamare sulla sua carriera, sul cinema e sulle sue donne, sempre in equilibrio sulla sottile corda tesa di un fatalismo molto personale.

Pungolato dalla critica cinematografica de Il Sole 24 Ore Cristina Battocletti, Avati comincia il racconto dalle sue origini da cineasta: “La provincia è cattivissima con chi azzarda qualcosa. Dopo due film ‘fiasco’ non potevo più andare al mio solito bar Margherita, così ho cambiato posto. Una sera mi chiamano dicendo che mi vuole al telefono Dino De Laurentis, vado alla cornetta, rispondo ‘Pronto De Laurentiis? Pronto?’ e… in tutto il locale risuona una pernacchia carica di disprezzo”.


Ma ci sono anche situazioni che partono male e poi si risolvono in maniera felice, come a Ferrara sul set di Thomas l’indemoniato. Ancora Avati: “Cercavo una ragazza che somigliasse a Grace Kelly ma si presenta una ‘versione’ di Irene Papas, mora, venuta al posto della sua amica che non poteva, dice”. Il regista l’allontana, scontento e deluso di essere tenuto in così scarsa considerazione dagli attori, ma lei rimane tutto il giorno seduta al tavolo di un bar in attesa. “Decido di premiarla, lei si presenta il giorno dopo, truccata e in costume. Quando arriva il momento di recitare la sua parte, mi volto sicuro che mi avrebbe rovinato il film. Succede una cosa magica: recita in maniera bellissima”. Il regista va a scusarsi e chiede all’attrice il suo nome: “Mariangela Melato”, risponde lei.

A ruota libera, racconta di sé, della musica, di Lucio Dalla. E delle ‘sue’ donne, un legame inscindibile nel suo cinema, lo dimostra l’incontro con sua moglie Nicola. Di quando la accompagna a casa per la prima volta. “Avevo cinque chilometri di tornanti per dire alla ragazza più bella di Bologna che aveva finalmente trovato l’essere umano più intelligente e fantasioso che c’era”, racconta. Dopo un viaggio “nel silenzio e nella fissità, non sono riuscito a dire niente”, poi l’illuminazione: Avati, come stratagemma, immagina la scena di un film. “Le mostro l’orologio di mio padre, le chiedo di dirmi l’ora e il giorno, poi le dico che mancano pochi minuti alla fine del mio compleanno e non ho ricevuto né auguri né un bacio fino a quel momento”.

Il trucco riesce: “Mi bacia. Ma io – confessa alla fine – compio gli anni il 3 novembre”. E il pubblico che affolla la sala si scioglie in una risata. Negli anni la coppia vive alti e bassi – come quando Avati se ne va di casa per otto mesi, invaghito di un’attrice – ma il legame non si spezza. “Le storie d’amore vanno giudicate solo quando sono lunghe, totali ed estreme. Da 54 anni so che quando torno a casa c’è lei, l’hard disk che contiene tutti i miei file. Dietro i suoi occhi ci sono io”. Ma i suoi, di occhi, sono sempre quelli di un regista: “A volte quando parliamo la guardo e mi chiedo se dovrei inquadrarla in una maniera o in un’altra”.

Avati non è solo il regista del gotico padano, come lo definisce il critico Claudio Bartolini nel libro che dà il nome alla definizione, ma è anche scrittore. “Che differenza c’è tra i due lavori?”, chiede Battocletti. “La scrittura ti permette una libertà che al cinema è negata perché ci si confronta sempre con l’incasso”. Il suo ultimo libro, Il Signor Diavolo, edito da Guanda, è uno scavo sul male. “Cos’è il male? Qualcosa che ci fanno o facciamo senza una spiegazione”, lo definisce Avati. “Io, che cerco disperatamente di essere credente, gioisco degli insuccessi altrui. Una volta mi sono andato a confessare e il sacerdote mi ha suggerito di rivolgermi a uno psicanalista”, conclude Avati prima di ricevere l’ovazione dell’intera sala.

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