Gian Ruggero Manzoni, da docente a Urbino a 007. La vita del “Risolutore”, romanzo finalista allo “Strega”

Gian Ruggero Manzoni, foto da Facebook
di MARIA PIA PETRAROLI

URBINO – Gian Ruggero Manzoni, nato nel 1957 a Lugo di Romagna, ora è un pittore e uno scrittore. Scrive libri ed espone le sue opere. In passato è stato uno ‘007’, ha partecipato ad azioni di spionaggio, ha ucciso in guerra. La sua storia è quella narrata in un romanzo, Il Risolutore, scritto da Pier Paolo Giannubilo e tra i 12 finalisti al Premio Strega 2019. In un’intervista al Ducato Manzoni parla di sé e delle sue molteplici vite, da quella all’Accademia delle Belle Arti di Urbino a quella di arruolato “volontario” e agente dei Servizi segreti in Italia, Libano, Bosnia. Dalla sua voce dai toni pacati emerge tutta l’esuberanza che ha contraddistinto la sua vita, della quale non rinnega nulla, anche se si dice pentito di alcune delle sue scelte.

Lei è stato per alcuni anni docente all’Accademia delle Belle Arti di Urbino. Com’è stata la sua esperienza in questa città?

Ho insegnato Storia dell’Arte all’Accademia per cinque anni, dal 1990 al 1995. La mia materia trattava delle avanguardie storiche del ‘900, ma anche del rapporto tra le arti visive e plastiche e la letteratura. Ho vissuto lì dei momenti così belli che talvolta mi mancano; mi manca il rapporto continuo e diretto con i ragazzi, anche se mantengo ancora i contatti con molti dei miei ex allievi. Uno dei ricordi che conservo con più affetto è l’immagine dell’Aula Magna dell’Accademia, dove tenevo lezione, che era sempre piena. Anche se si tratta di un’aula piuttosto piccolina, il fatto che spesso non ci fosse posto a sedere e che quindi fossero tanti i ragazzi venuti ad ascoltarmi mi ha sempre fatto molto piacere. Tornerei sicuramente a insegnare a Urbino se ne avessi l’occasione.

Si potrebbe dire che lei ha vissuto più di una vita. Qual è quella che vorrebbe dimenticare?

La vita che più di tutte vorrei dimenticare e di cui mi pento è quella che ho vissuto dal 1977 al 2002 quando, dopo essere stato condannato ad un anno e sei mesi di carcere per detenzione irregolare di pistole, ho accettato di commutare la pena con 25 anni a servizio delle forze armate. Così ho iniziato a dover essere perennemente a loro disposizione e così sono iniziate le azioni sotto copertura come agente dei Servizi. Non posso dire di aver fatto il mio dovere di militare, ho solo fatto quello che mi si chiedeva di fare. Adesso ho imparato comunque ad accettare anche quella di vita; alla fine ho capito che nulla di quello che viviamo va buttato via, anche i momenti più tristi e sconcertanti servono: l’ho imparato con gli anni e a mie spese. A un giovane direi questo: quello che può sembrare tragico e disastroso oggi, domani può tornare utile come esperienza di vita, sia pratica che esistenziale.

C’è un episodio in particolare che ricorda di questi 25 anni?

Sì, ricordo benissimo quando nel 1980, mentre ero sulla spiaggia a Vallugola, tra Gabicce e Pesaro, i carabinieri mi vennero a prendere perché era esplosa una bomba a Bologna. In quel caso fui chiamato come sergente delle Forze speciali. Rimasi scioccato. Dissi:” Io cosa c’entro?” e le forze armate risposero semplicemente: “Lei è richiamabile”.

Qual è invece la vita di cui è più fiero?

Ciò che mi ha reso più fiero è stato il riuscire ad allevare quasi da solo mia figlia, anche se non mi è mai mancato in questo l’aiuto di mia madre. Mia figlia l’ho praticamente cresciuta io, perché sua madre ha avuto diversi problemi psicologici. Se mi consente la battuta, mi definirei un ragazzo padre.

Come ha raccontato la sua vita a sua figlia, se mai l’ha fatto?

Ora ha 24 anni, ma quando era più piccola le ho raccontato che il babbo ha fatto la guerra, ha visto la morte e ha ammazzato da molto vicino. Lei però non ha voluto ancora leggere il libro che parla della mia vita. (Il Risolutore)

Perché?

Perché si parla della mia intera vita, lei compresa, e quindi forse per non rivivere brutti momenti del suo passato, in particolare l’assenza della madre e il rapporto mai vissuto fino in fondo con lei. E soprattutto perché forse dall’altro lato ha un padre abbastanza ingombrante sotto tanti punti di vista. È un argomento che non abbiamo affrontato ancora bene.

Qual è l’esperienza, tra quelle che ha vissuto, che l’ha più cambiato?

Sicuramente il combattimento diretto in Bosnia a Zenica, in cui mi sono trovato coinvolto nel 1994. Fino ad allora il mio ambito era sempre stato solo quello dello spionaggio. In quel caso invece ho dovuto fare anche altro: sparare e prendere di mira determinati bersagli con fucili di precisione anche da un chilometro di distanza, entrare in una stanza o in una casa, freddare una persona e poi uscirne. La mia missione, con gli altri agenti, era quella di cercare di entrare a Sarajevo, che era assediata dai serbi, ma non ci riuscimmo. Altro momento abbastanza pesante è stato quello in cui mi hanno sparato addosso a Beirut in Libano nel 1982. Ero con altri cinque agenti e i colpi sono arrivati mentre cercavamo di uscire dal quartiere arabo della città. Nessuno di noi rimase ferito, eccetto due soldati della legione straniera francese che furono colpiti nell’intento di proteggere noi.

Lei è anche un pittore, come si definirebbe dal punto di vista artistico?

A grandi linee mi definirei un neo-impressionista. Ho lavorato molto a contatto con le avanguardie tedesche negli anni ’70 e ’80 e poi con la transavanguardia in Italia. Nonostante questi miei riferimenti, però, non mi sono mai sentito coinvolto in gruppi di tendenza.

Quanto della sua vita è presente nelle sue opere?

Tanto, anche se non in maniera diretta. Le mie opere sono caratterizzate infatti da una dimensione tragica di fondo, le atmosfere sono spesso cupe, noir e i colori che utilizzo sono quasi sempre scuri.

È protagonista de Il risolutore di Giannubilo. Come ha incontrato l’autore e che rapporti ci sono adesso tra di voi?

L’ho incontrato durante una lettura di mie poesie a Campobasso negli anni ’90, non ricordo bene l’anno. Poi l’ho rivisto in altre occasioni e parlando delle mie esperienze abbiamo avuto insieme l’idea di scriverci un romanzo. Inizialmente Giannubilo era abbastanza titubante vista la delicatezza dell’argomento, ma poi venendo a sapere quanto fosse stata strabiliante tutta la mia vicenda umana ha deciso di metterla su carta. Pier Paolo ha mostrato un certo interesse nei confronti della mia vita anche perché lui crede molto nella redenzione, nella possibilità di avere una nuova vita dopo esperienze negative. Ha impiegato cinque anni per scrivere il libro. Adesso siamo in buonissimi rapporti e quotidianamente in contatto, anche per via della candidatura del romanzo al Premio Strega.

Cosa pensa di questa candidatura?

Ne sono molto contento anche perché secondo me è un romanzo che si distacca completamente dalla tendenza generale della narrativa attuale, sempre legata ad argomenti che fanno tendenza, come la diversità, la gioventù senza futuro, la questione delle donne, la malavita. Dal punto di vista letterario credo si possa definire come un incentivo a togliere certi cliché e cercare nuove vie per la narrativa.

A proposito di letteratura, lei porta un cognome importante.

Sì, credo che ciò che più mi lega al mio antenato Alessandro Manzoni è la provvidenza divina, al centro de I Promessi Sposi, ovvero il dono, l’aiuto che Dio dà all’uomo e che alla fine risulta sempre vincitrice. Io infatti non rinnego nulla di quello che ho fatto e di molte cose mi pento, ma ringrazio Dio, se ne esiste uno, per mia figlia e per il desiderio che ancora ho di continuare a vivere.

Crede in Dio?

Sì, ho sempre avuto un forte sentimento religioso, soprattutto nelle situazioni peggiori che ho vissuto.

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