“Come è cambiato il calcio, da Laudrup a Icardi”. A Urbino la lezione dei manager di Serie A

di LUCA GASPERONI

URBINO – Nel 1982, l’anno del “Mundial”, Mauro e Fabio sono due giovani di belle speranze all’esordio nel calcio che conta. Il primo gioca come attaccante nella Lazio, l’altro come centrocampista nel Cesena. Al termine della carriera, a metà anni ’90,  i due appendono gli scarpini al chiodo e passano dietro alla scrivania come dirigenti.

Trentasette anni dopo dividono lo stesso tavolo per raccontare in un seminario di management calcistico le loro avventure come direttori sportivi delle “aziende calcio”. Perché, come dice subito Fabio Lupo, ex responsabile di Torino, Bellinzona e Sampdoria: “Ogni società è una azienda anomala, quello che succede in una settimana in una società calcistica accade in un anno in una società normale”.

Al collegio “La Vela” di Urbino l’associazione studentesca Cuspide ha portato Mauro Meluso e Fabio Lupo, due abitanti di lunga data del pianeta calcio. L’obiettivo dell’incontro è ripercorrere dal punto di vista dei dirigenti tutti i protagonisti del calcio moderno: giocatori, agenti e presidenti. Senza dimenticarsi però di gol e calciomercato.

Fabio Lupo rievoca con orgoglio la promozione in A con l’Ancona nel 1992 e la finale di Coppa Italia due anni più tardi. Con il gol in biancorosso nella partita persa contro la Sampdoria infatti è stato l’ultimo giocatore di serie B a segnare in una finale del trofeo nazionale.

Ma anche nei 15 anni passati a scovare talenti come Fabio Quagliarella e Pasquale Foggia, non sono mancate le soddisfazioni: “Quando ero nell’area tecnica della Sampdoria c’era un giovane attaccante che era stato preso dal Barcellona, sul quale si iniziavano a nutrire dei dubbi – racconta il dirigente pescarese mentre sorride – lui si sentiva un po’ emarginato, era un giocatore della prima squadra ma veniva mandato nella Primavera. Puntai moltissimo sul ragazzo, ci parlai tanto per spronarlo e stimolarlo. Quel giocatore si chiamava Mauro Icardi“.

Mauro Meluso invece, dal 2016 direttore sportivo del Lecce risorto grazie all’azionariato popolare, ha portato un regalo per i ragazzi del seminario: le magliette originali di Mancosu e La Mantia, autografate da tutti i giocatori. Un premio per chi vincerà il quiz sulla storia calcistica della squadra pugliese.

“Il calcio è importante per due ragioni: una sociale e una economica. La prima è che può essere giocato ovunque e da chiunque – spiega il responsabile dell’area tecnica giallorossa – la seconda è che, come fatturato, è tra le prime dieci industrie italiane. Fino al 2003/2004, non a caso, con le sue entrate ha finanziato tutto lo sport italiano”.

La lunga lotta per i diritti dei giocatori

Un industria, quella calcistica, che per un centinaio di anni non ha riconosciuto il calciatore come un lavoratore professionista: “Da calciatori avevamo veramente pochi poteri contrattuali. Ho esordito nel 1983 in serie A a 18 anni con la Lazio. Accanto a me c’erano Bruno Giordano e Michael Laudrup – dice Meluso riavvolgendo il nastro dei 22 anni di carriera –  dopo tre partite feci una doppietta all’Avellino, ma non avevo ancora un contratto. Guadagnavo 1 milione di lire al mese, circa 500 euro.”

L’anno zero è il 1968, quando nasce l’Associazione Italiana Calciatori (Aic) grazie all’appoggio dei campioni di Milan e Inter, Gianni Rivera e Sandro Mazzola. Ma i contratti sportivi arriveranno molto più tardi, nel decennio tra ’80 e ’90.

I procuratori, i padroni degli anni duemila

Il riconoscimento di diritti lavorativi negli anni ’90 coincide con l’ascesa degli agenti dei calciatori. Emergono così i Mino Raiola e i Jorge Mendes, procuratori sempre più potenti e influenti, in grado addirittura di indirizzare sessioni di calciomercato. Il direttore sportivo ha dei nuovi interlocutori e il rapporto non sempre è idilliaco.

“Il Ds è di frequente a contatto con gli agenti. L’anomalia però è che chi fa l’agente spesso non ha un passato calcistico e conosce poco la materia. – denuncia l’ex calciatore della Cremonese Meluso –  a volte ci sono anche commistioni tra Ds e procuratori: una cosa gravissima, perché può favorire una collusione tra i giocatori, fino ai casi estremi di partite comprate e calcioscommesse”.

Un altro capitolo riguarda invece i baby giocatori che si rivolgono ad agenti ambiziosi ma, secondo Lupo, “il procuratore cerca di trovare la migliore soluzione economica senza tenere sempre conto della crescita corretta del calciatore. Pensa al prestigio e agli interessi economici del giocatore ma non sempre interesse economico e crescita del ragazzo coincidono”.

I presidenti in cerca di gloria

Il mondo del calcio non esisterebbe però senza qualcuno a investire. Ecco allora che un presidente è fondamentale. L’azienda calcio infatti è l’unica azienda che parte sapendo quanto incassa ma non quanto spende. I principali motivi per fare questo passo quindi sono tre: “Il primo è la mediaticità del mondo del calcio, c’è infatti un ritorno di immagine e di soldi se investi in una squadra di una grossa città – dice Meluso –  a cui si collega un inevitabile intreccio politico: spesso i sindaci cercano di invogliare l’investitore a risollevare le sorti della squadra cittadina offrendo, in cambio, appalti e commesse”.

A tutto questo si aggiunge l’idea, come nella ludopatia, di poter interrompere l’avventura imprenditoriale quando si vuole. Un’opera tutt’altro che facile.

“Il  lavoro del responsabile dell’area tecnica è basato sul contatto quotidiano con la proprietà. Il presidente è una fattore fondamentale per l’equilibrio del rapporto” dice Lupo ridendo. Finché dura. Il direttore sportivo infatti proprio un anno fa veniva cacciato dalla panchina del Palermo: “Era febbraio ed ero 2° in classifica. Poteva non esonerarmi il presidente Zamparini?”.

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