“Il giornalismo locale può e deve fare la differenza”. La ‘lezione’ del premio Pulitzer Bob Marshall

di LUCA GASPERONI

URBINO – Non importa quanto la sfida sia grande, ognuno può fare la differenza. Di fronte a un uragano o un’inondazione il primo pensiero per molti può essere quello di scappare. Ma non per tutti: lo sa bene il reporter premio Pulitzer Bob Marshall – a Urbino per tenere un corso di giornalismo sull’informazione locale – che nel 2005, anno dell’uragano Katrina in Louisiana, decise di rimanere a New Orleans per informare e coordinare i soccorsi di uno dei più grandi disastri ambientali della storia americana.

Il giornalista statunitense con i colleghi del Times-Pichayune raccontò con ogni mezzo possibile l’inondazione che sommerse l’80% della città, causando 1.000 morti e miliardi di dollari di danni. L’anno successivo, il team ricevette il premio Pulitzer “per la copertura eroica e sfaccettata dell’uragano Katrina e per aver servito una città inondata anche dopo l’evacuazione della fabbrica di giornali”.

Marshall, giornalista appassionato di tematiche ambientali e amante della natura, diede il suo contributo, investigando sulle responsabilità umane che amplificarono il disastro. L’inondazione che sommerse New Orleans infatti fu causata dal collasso di un sistema ingegneristico di protezione mal progettato, che il governo federale cercò invano di nascondere all’opinione pubblica.

Lei ha lavorato nel locale riuscendo spesso a portare le notizie a un livello nazionale. Qual è il suo giudizio sul giornalismo locale?

Alto, senza dubbio. Il giornalismo locale racconta cose di cui nessun altro parla o sa abbastanza, svolge un servizio pubblico fondamentale. Getta luce su cose spesso condannate al silenzio. I giornali sono consultati quotidianamente da tutte le persone che vogliono sapere cosa sta succedendo intorno a loro. Proprio per questo, negli ultimi anni di crisi dell’informazione, quelli che spesso hanno retto meglio l’urto sono stati i locali, in grado di dare le notizie che non potevano essere trovate da altre parti.

Che consiglio darebbe a dei giovani giornalisti che lavorano nel locale?

La maggioranza dei giovani oggi ha smesso di interessarsi alle notizie perchè crede non sia importante. La ragione? I giovani, si sottostimano, non credono sia possibile fare la differenza. Non è così. “If you think to be too small to make a difference try sleeping with a mosquito” diceva il Dalai Lama. Una piccola zanzara può tenerti sveglio tutta la notte, metterti in difficoltà. Si può e si deve sempre fare la differenza.

Quale è stata la storia, il reportage che ha richiesto più tempo nella sua lunga carriera?
Senza dubbio “Oceans of trouble” reportage sull’inquinamento acquatico per cui ho lavorato un anno e mezzo nel 1995-96. Con il mio team abbiamo viaggiato in tutto il mondo: siamo stati in Ecuador, Thailandia, Giappone, Alaska letteralmente ovunque.

Invece il lavoro su cui ha passato più tempo, magari senza riuscire a trovare la notizia?

Un presunto scandalo di politici corrotti in Louisiana, abbiamo speso cinque mesi e non c’era nulla di illegale. Non ne ricordo altre, sarà che con il tempo si tende a dimenticare le cose peggiori, si ricordano solo le migliori. Ho avuto molta fortuna nella mia carriera: sono stato indipendente, ho scritto di quello che mi interessava, ho seguito tanti eventi importanti, penso alle Olimpiadi, al Superbowl. E poi il premio Pulitzer. Non ho di che lamentarmi.

Parla come se la sua carriera fosse conclusa, ha smesso di fare giornalismo?

No affatto (ride ndr), ma un paio di anni fa ho lasciato il giornale no profit Lens, mi ero stancato di lavorare full time. Sono tornato al mio giornale di origine, The Times-Picayune, faccio reportage ambientali e scrivo qualche volta le colonne di opinione. Proprio in questo mese però il giornale è stato comprato dal suo diretto avversario cittadino, The Advocate, che ha preso il logo, l’archivio e tutto il resto. Quindi non so per il futuro, vedremo.

Due giornali locali in una grande città come New Orleans si fondono: la crisi dei giornali cartacei ha colpito anche gli Stati Uniti?

Ovviamente, la gente ormai non legge più i giornali. La lettura in generale e il consumo di news sono un’abitudine, una tradizione che si tramanda a livello familiare, come la caccia o la pesca ad esempio, una di quelle passioni per cui bisogna essere indirizzati. Negli ultimi 20 anni questa trasmissione si è interrotta.

Per quale motivo secondo lei?

Dagli anni novanta si è creato un gap che, giorno dopo giorno, si è allargato coinvolgendo sempre più persone. È mancato il reclutamento delle persone necessarie a raccogliere l’eredità. Una donna un po’ di tempo fa mi diceva: “If a news is important it will find me”. Questo è il pensiero degli americani che hanno il primo contatto con le notizie attraverso Facebook e Twitter. Ma quelle non sono redazioni, sono aggregatori di notizie: clicchi solo su cose già cercate, trovi solo quello che ti interessa e già pensi.

Quale è il livello di disinformazione negli Stati Uniti?

Davvero alto. Mi fa davvero male la determinazione con cui la gente del mio paese ignora quello che sta succedendo in tutto il mondo. Molti credono ancora di vivere nello stato con la migliore qualità della vita al mondo. E quando gli mostri che non è vero, ti danno del “bugiardo” o del “nemico del popolo”. La gente seleziona le notizie e sceglie solo quello che vuole sentire. Ho coperto disastri ambientali, inondazioni e uragani e ancora quando parlo di cambiamento climatico la gente la etichetta come “fake news”.

Di certo non aiuta che il presidente Trump sia il primo a negare il cambiamento climatico. Perchè secondo lei?

Il partito conservatore ha alle spalle le corporazioni e le grandi imprese, i principali colpevoli dell’inquinamento. Per  Trump il loro appoggio è fondamentale: serve a finanziare la politica e a rilanciare l’economia, il modo migliore per avere consenso. Non si tratta di idee, solo di una pura questione di denaro. E i soldi, purtroppo, stanno vincendo.

Che cosa pensa di Trump?

Distrugge tutto quello che tocca e la cosa peggiore è che nel partito repubblicano tutti lo appoggiano. Non è intelligente, non è ben informato, non sa nulla di molti argomenti, mente tutti i giorni spudoratamente, è un bullo. Ad un anno alle presidenziali lui è convinto di rivincere, ma io sono fiducioso, spero che la gente capisca l’errore fatto.

La disinformazione diminuisce la conoscenza della realtà e spesso la democrazia. Come si combatte tutto questo?

Mantenendo il processo scientifico nel  lavoro giornalistico: senza pubblicare rumors, controllando i fatti, verificando le fonti, cercando almeno due voci diverse a conferma della notizia che hai sentito, una delle regole più diffuse nelle redazioni americane. L’unico modo per mettere all’angolo la disinformazione è continuare a lavorare duro, con rigore e correttezza. La storia, alla fine, dimostrerà la bontà del nostro lavoro e ci darà ragione.

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