Quell’esercito di moderni schiavi, il lato oscuro dell’agricoltura italiana

di VALERIO SFORNA

URBINO – “I ricordi più brutti che ho della mia carriera di sindacalista di ‘strada’ sono la strage dei dodici braccianti sul furgone dei caporali a Foggia e il rogo nella tendopoli di San Ferdinando dove è morto arrostito un migrante”. A parlare, con toni crudi, è Jean Renè Bilongo esponente della Federazione dei lavoratori dell’agroindustria della Cgil, intervenuto, questa mattina, al convegno “Vite sottocosto. Migrazioni, lavoro e sfruttamento in agricoltura” organizzato dalla Carlo Bo in collaborazione con la Caritas e l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo).

Ad aprire il dibattito i numeri impietosi del direttore dell’Ilo, Gianni Rosas, in collegamento video con l’aula blu di palazzo Battiferri: “In Italia sono circa 450.000 le vittime di sfruttamento di lavoro, il 32% dei quali versa in condizioni gravissime di lavoro ‘forzato’. L’80% di questi moderni ‘schiavi’ sono migranti”. C’è infatti una stretta correlazione tra sfruttamento in agricoltura e migrazioni, perché i soprusi più gravi vengono perpetuati nei confronti degli strati più deboli della popolazione.

Questa connessione risulta chiara dal secondo ‘Rapporto presidio’ contenuto nel libro della Caritas italiana ‘Vite sottocosto‘ presentato dalla professoressa della Carlo Bo Piera Campanella che ha avuto un ruolo importante nella formazione del report. “Grazie ai presidi della Caritas, che non sono altro che delle strutture permanenti di ascolto nelle situazioni più gravi di sfruttamento del lavoro, siamo riusciti a creare una banca dati  con la quale abbiamo costruito l’identikit del lavoratore sfruttato – spiega la professoressa Campanella. I presidi fanno riferimento a 18 diocesi italiane da Saluzzo a Ragusa in cui si sono registrati volontariamente quasi 5.000 utenti”.

Gli invisibili

Secondo il Rapporto i lavoratori sfruttati sono per l’87% uomini (4311 di coloro che si sono registrati). La loro età media è di 34 anni e la maggior parte di loro proviene dall’Africa sahariana (79%), anche se le nazionalità registrate sono 47. Il settore di occupazione preminente è quello agricolo (85%) , al secondo posto l’edilizia. Il 60% di loro non ha un contratto di lavoro e le retribuzioni, spesso a cottimo, variano da 1 a 4 euro a ‘cassone’. Questi lavoratori sfruttati sono gli ‘invisibili’, infatti, solo 293 sono iscritti all’anagrafe e non potranno mai godere del reddito di cittadinanza o delle altre misure di sostegno sociale. Solo il 44% di loro ha una casa il resto si arrangia con alloggi di fortuna. Tra i ‘fortunati’ che hanno un tetto sopra la testa poco più della metà ha la luce in casa e servizi igenici mentre solo uno su tre dispone dell’acqua potabile.

L’aula blu di palazzo Battiferri sede del convegno ‘Vite sottocosto’

Da nord a sud quattro foto dello sfruttamento

Il lavoro della professoressa Campanella ci guida in un tour geografico dell’Italia degli sfruttati attraverso un focus sui presidi agricoli. Si parte dal Nord, a Saluzzo in provincia di Cuneo. La tendopoli si chiama ‘Fondo boario’ e proprio qui, dove un tempo venivano esposte in fiera le macchine agricole, i lavoratori dei campi di kiwi e mele hanno deciso di alloggiare, almeno fino a quando, grazie alla Caritas, l’amministrazione di Saluzzo non ha trasformato la ex caserma Filippi in un dormitorio con 368 posti letto.

Il Viaggio continua poi a Latina. Qui il campo si chiama ‘Borgo hermada’, la popolazione di riferimento sono gli indiani Sikh e i prodotti agricoli gli ortaggi per il famoso mercato ortofrutticolo di Fondi. A Latina nel 2016 ci sono stati anche scioperi e ribellioni contro i capi comunità che gestiscono in maniera torbida quello che è stato definito come il caporalato dei servizi.

Nel Tavoliere delle Puglie, nei pressi di Cerignola, si erge il ‘Borgo tre titoli’. Qui troviamo il massimo degrado, le sterminate distese dei campi di pomodori e lo sfruttamento del lavoro assume le forme più classiche del caporalato. Qui non ci sono ispezioni, i lavoratori vengono pagati a ‘cassone’ e spesso devono anche pagare i contratti di lavoro per ottenere un permesso di lavoro.

Il presidio più interessante però è quello di Ragusa, per tante ragioni. In primo luogo è quello dove si sono iscritti più utenti, 1083 (il 20% del totale). A Ragusa le lavoratrici sfruttate superano i lavoratori. Le donne di origine romena operano nelle serre per gli ortaggi e in quelle serre ci vivono. Esse sono state la risposta alla sindacalizzazione dei tunisini, pagati meglio perché considerati degli specialisti. Ultima ruota del carro, in questa triste dinamica di ‘salario etnico’ i rom, pagati addirittura meno delle donne rumene. Il dramma del presidio di Ragusa sono i numeri dello sfruttamento del lavoro minorile (174 unità). “Non è raro imbattersi in bambine con lo zaino di Peppa pig in spalla che si aggirano per le serre”, racconta la professoressa Campanella mostrando le foto.

Agricoltura, chi non sfrutta vince

Secondo il professore di Economia dell’Università di Bologna, Rino Ghelfi, lo sfruttamento del lavoro nel settore agricolo non è altro che un retaggio antico. “L’alibi che spesso viene utilizzato dalle imprese agricole per sfruttare i lavoratori sono gli scarsi proventi – spiega Ghelfi –  ma in realtà quello agricolo è un settore ‘resiliente’ che ha saputo tenere nel decennio della crisi e che adesso si sta affermando come uno di quelli più prestanti”.

Sotto il profilo economico, infatti, il settore agricolo presenta dati positivi: produttività in crescita, investimenti in ripresa dal 2015, aumento dei prezzi e ottimo andamento delle esportazioni. Naturalmente ci sono anche dei problemi, come ad esempio l’età media elevata degli operatori: il 50% degli agricoltori è over-65. Inoltre un ettaro di terreno in Italia costa sei volte di più rispetto alla Francia.

Secondo Ghelfi però ci sono tutte le premesse per aspettarsi segnali positivi nel lungo periodo: “L’evoluzione della domanda globale di prodotti agricoli si sta avvicinando sempre di più ai prodotti made in Italy. Inoltre la componente ‘fair’ dell’offerta, che si sta affermando in tutto il mondo (attenzione al biologico, rispetto per gli animali, tutela dell’ambiente), potrebbe portare a migliorare i rapporti etico/sociali nella filiera agroalimentare. Non è un caso che le performance migliori sono conseguite dalle aziende agricole che adottano comportamenti virtuosi e che rispettano i lavoratori garantendogli salari adeguati e condizioni di lavoro dignitose”.

Gli strumenti di tutela vanno potenziati

Secondo William Chiaromonte, professore di Diritto del lavoro dell’università di Firenze, la riforme del 2011 e del 2016 che hanno introdotto e modificato l’art 603bis del codice penale (sfruttamento del lavoro e intermediazione illecita) hanno avuto un ottimo impatto sulla lotta al caporalato. Ci sono 81 inchieste con applicazione dell’articolo in circa quaranta procure in tutta Italia, dal Nord al Sud (anche a Pesaro è in corso un’inchiesta di questo tipo). Questi risultati positivi però seppur necessari, non sono sufficienti a reprimere il fenomeno.

“Andrebbero revisionati gli assetti produttivi del settore agricolo, implementata la repressione penale dell’intermediazione illecita, potenziati i controlli ma soprattutto servirebbe una riforma reale dei centri per l’impiego – spiega Chiaromonte – migliorando i canali pubblici di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro, e non sempre dalla politica abbiamo ricevuto le risposte che servivano”, conclude Chiaromonte.

Ad ognuno il suo…. mestiere

Jean René Bilongo, sindacalista della Flai-Cgil

“Se oggi si parla di sfruttamento di lavoro e caporalato è grazie alla Flai-Cgil, che ha iniziato la sua attività di monitoraggio nel 2008”, racconta Bilongo. “Siamo orgogliosi che la Caritas e altre associazioni si interessino al fenomeno, più siamo a combattere questa battaglia e meglio è”.  Ai continui attacchi dei vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini ai corpi intermedi (come i sindacati) e alle associazioni del terzo settore (come le Ong) Bilongo replica senza tanti giri di parole: “Facciano il loro lavoro con competenza e passione come noi svolgiamo con attenzione e cura il nostro ruolo. Che ognuno faccia il proprio mestiere, questa è la mia speranza”.

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