Così un pezzetto di Rna può rallentare l’arteriosclerosi. Ricercatore di Urbino nel team internazionale

Roberto Molinaro, ricercatore dell’Università di Urbino. A sinistra una immagine delle arterie dallo studio pubblicato su Science
di CLARISSA CANCELLI

URBINO – Una delle chiavi per sconfiggere l’arteriosclerosi era lì, quasi in bella vista, ma finora in qualche modo ignorata. Un frammento di Rna “non codificante” che non sembrava avere alcuna funzione. I ricercatori dell’Harvard Medical School sono riusciti invece a identificare il ruolo dei “Long non-coding Rnas”, nel contrastare il progredire di questa patologia. A contribuire allo studio, pubblicato sulla rivista internazionale Science Translational Medicine, anche Roberto Molinaro, ricercatore del dipartimento di Scienze Biomolecolari dell’Università di Urbino.

STOCCHI –  “La ricerca è fondamentale. Abbiamo docenti eccellenti, ma pochi fondi”

L’aterosclerosi, più conosciuta come arteriosclerosi, è una malattia caratterizzata da alterazioni della parete delle arterie, che perdono la propria elasticità a causa dell’accumulo di calcio, colesterolo, cellule infiammatorie e materiale fibrotico.  Può causare patologie cardiovascolari come infarto cardiaco, aneurisma, ischemia cerebrale e disturbi vascolari periferici. La scoperta è un passo avanti nella conoscenza della malattia e nello sviluppo di terapie più efficaci.

Cosa sono Long non-coding Rnas?

I Long non-coding Rnas sono sequenze di Rna che non vengono tradotte in proteine. Sono stati a lungo ignorati perché si pensava fossero Rna “non funzionale”, in realtà si è poi scoperto che sono coinvolti in importantissimi processi di regolazione di meccanismi biologici. Nel campo dell’aterosclerosi il loro ruolo non era ancora ben definito: “Per questo motivo, la ricerca si è focalizzata sul creare un profilo, sul fare uno screening a questo tipo di Rna – spiega Molinaro al Ducato – che era risultato particolarmente espresso nella fase di progressione e in quella di regressione della malattia aterosclerotica nell’organismo dei topi usati nella ricerca”.

Gli esperimenti

I topi analizzati erano geneticamente modificati: non avevano il recettore per le ldl, ossia lipoproteine a bassa densità (praticamente i trasportatori di grassi nel nostro organismo). Inoltre una dieta ad alto contenuto di colesterolo li ha resi molto soggetti alla formazione di placche nelle arterie. “Nelle fasi di progressione e regressione della patologia, sono state raccolte le arterie di questi topi che presentavano tali placche. Poi è stato isolato lo strato piú interno delle arterie ed è stato fatto uno screening dei long non coding Rna espressi per analizzare quali fossero differenti rispetto a un controllo sano – spiega Molinaro – in questo lavoro è stato identificato in particolar modo questo Snhg12, la cui espressione sembrava essere ridotta durante la progressione della lesione”.

Una volta trovato il filo, bastava tirare: “Si è creato un modello in cui questo tipo di Rna veniva soppresso, e si è osservato che in questi vasi la formazione delle placche era accelerata da due a quattro volte rispetto ai topi controllo”. Dopo una lunga serie di esperimenti con delle metodiche di altissimo livello sia tecnologico che scientifico, i ricercatori si sono accorti che l’accelerazione della gravità della placca era correlata proprio a un aumentato danno al dna e a una aumentata senescenza nell’endotelio vascolare, ossia l tessuto che riveste la superficie interna dei vasi sanguigni. E questo avveniva più velocemente quando quel frammento di Rna veniva ‘spento’.

Il compito del ricercatore urbinate

“Il mio ruolo è stato quello di testare i Long non-coding Rnas per valutare che ruolo avessero nella permeabilità vascolare. Ho effettuato queste microchirurgie sulle carotidi dei topi in cui ho applicato una cuffia perivascolare in modo da restringere il diametro del vaso e quindi disturbare il flusso sanguigno. Questo flusso disturbato creava un danno alle cellule endoteliali, che veniva modificato in seguito al pre-trattamenti con questo tipo di Rna. In questo modo abbiamo praticamente validato il suo ruolo diretto nel modulare la permeabilità vascolare. Se riuscissimo a mantenere i livelli di questo tipo di Rna alti anche durante la progressione della patologia, probabilmente si otterrebbe un effetto protettivo sul vaso e quindi una riduzione del danno al Dna e della senescenza. Insomma, una protezione rispetto alla malattia aterosclerotica.”.

Ora la ricerca ha un nuovo tassello da inserire in un puzzle intricato, per sviluppare terapie più efficaci e limitare l’incidenza delle patologie cardiovascolari, che secondo l’Organizzazione mondiale della sanità sono la prima causa di morte nel mondo: “La scoperta di players che giocano un ruolo importante nell’aggravamento della patologia o al tempo stesso nella protezione rispetto alla patologia stessa potrebbe anche significare un approccio terapeutico” conclude Molinaro.

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