Varotti, marchigiano a Shanghai: “Non scorderò la città deserta. La Cina ripartirà, l’Italia è più fragile”

Cristiano Varotti e la moglie He Dongmei con le mascherine
di GIULIA CIANCAGLINI

URBINO – Narcos:Messico, L’amica geniale e un’infinità di libri. “In realtà, non proprio infiniti, perché quando abbiamo terminato di leggere quelli che avevamo con noi, con le librerie chiuse, ci siamo buttati sui film e sulle serie tv e per fortuna lo streaming cinese ti fa vedere praticamente tutto”, sorride Cristiano Varotti, marchigiano di 37 anni, in Cina dal 2012, ora è consulente per le relazioni istituzionali tra l’Italia e la Cina. Così, tra romanzi e serie tv ha passato una quarantena volontaria di due settimane, nella provincia dello Hunan, a casa dei genitori della moglie cinese He Dongmei.

Quattordici giorni senza granché da fare, intervallati da qualche diretta in collegamento con la Rai, che gli hanno permesso però di osservare da vicino, anche con occhi italiani, l’emergenza sanitaria del Coronavirus, riflettendo sulle diverse reazioni che cinesi e italiani hanno avuto di fronte all’epidemia. Dalla percezione della paura alla copertura mediatica, dalle conseguenze economiche alla forza di ripartire, che la Cina, secondo lui, sta già dimostrando. Grazie alla fiducia nelle istituzioni e a una nuova “rivoluzione digitale”, che passa dal telelavoro all’e-learning.

Due settimane “noiose”

Ora Varotti si trova a Shanghai ma per le vacanze di Natale era in Italia, dalla sua famiglia. È tornato in Cina il 20 gennaio, “per fortuna subito prima che scoppiasse il casino”, commenta. In occasione del Capodanno cinese è stato, con la moglie, a casa dei suoceri in campagna nella provincia dello Hunan, confinante con quella di Hubei, dove si trova Wuhan, ma comunque piuttosto distante dal focolaio. Hanno scelto di rimanere lì per farsi un paio di settimane di quarantena, anche se non avevano sintomi e non ce ne sarebbe stato poi così bisogno.

In quei giorni non hanno avuto grandi problemi: potevano girare in bici, uscire e andare al supermercato. “È chiaro che ti controllavano dappertutto, ma funziona così anche adesso – racconta – se vai al ristorante ancora oggi ti prendono la temperatura e nei luoghi pubblici è obbligatoria la mascherina”. Le mascherine, così come il disinfettante per mani, sono impossibili da trovare in Cina. Ma per ovviare il problema Varotti se ne è fatte mandare 150 dall’Italia, “così mi bastano per sempre”, scherza.

Cristiano con la mascherina dentro un McDonald’s completamente vuoto

“Un’emergenza di questo tipo comunque è più semplice da controllare qui proprio per la sua architettura”, spiega. In Cina non esistono case singole, i cinesi vivono in palazzi dai venti ai trenta piani circondati da una recinzione che forma i cosiddetti “compoud”, con guardie di sicurezza che controllano sempre all’entrata e all’uscita. “Le guardie ci sono tutto l’anno, non solo per il Coronavirus – aggiunge – solo che da quando è partita l’emergenza prendono anche la temperatura”.

Ogni provincia e ogni città e, in alcuni casi, addirittura ogni quartiere o “compound” aveva regole diverse durante il periodo di allerta. “In alcuni quartieri soltanto una persona per ogni famiglia poteva uscire per fare la spesa e soltanto per il tempo necessario – racconta – noi invece abbiamo vissuto una quarantena molto tranquilla”.

Hanno scelto di loro di stare a casa. “A parte la provincia dello Hubei, dove si trova anche il focolaio di  Wuhan, in tutto il resto della Cina la gente è sempre stata libera di scegliere – spiega il marchigiano – ma per evitare qualsiasi tipo di problema e per aiutare lo sforzo collettivo tutti hanno preferito stare a casa”.

Tutti nella stessa direzione

Secondo lui, tra Cina e Italia, la prima grande differenza sta proprio qui: “I cinesi sono tutti mossi da uno spirito collettivo molto forte. In Italia c’è più individualismo. Qui ci si fida delle autorità e ci si muove tutti nella stessa direzione”. Anche per questo, racconta di non avere mai percepito il panico, né in prima persona né tra i cinesi: “C’è stata da subito la consapevolezza che si trattasse di un’influenza, noi non abbiamo 80 anni e siamo sempre stati tranquilli”.

Il terrore italiano si spiegherebbe quindi come una questione culturale e di organizzazione sociale e politica. “In Italia tutto può essere utilizzato come strumento politico per attaccare l’altra parte – dice Cristiano – qui invece c’è un’unica versione”.

L’informazione

In Cina non c’è libertà di stampa, ma sui social media e sulle piattaforme online la gente discute di ogni cosa. “In Italia siamo infettati da tanto tempo dal virus della dietrologia, c’è sempre una trama nascosta – commenta il giovane che dal 2012 ha scelto di vivere in Cina – abbiamo una pluralità di opinioni discordanti, ognuno dice la sua e questo tipo di copertura mediatica crea il panico”.

Sostiene che in Cina non si vendono mai tanti giornali di carta stampata e che l’organo di informazione più gettonato è la televisione. A maggior ragione nell’ultimo mese, dato che molte persone erano in quarantena. “Ovviamente il Coronavirus è stato trattato da tutti i punti di vista anche qui. La grande narrativa però era dedicata agli eroi del popolo perché migliaia di medici da tutto il paese sono confluiti nella zona rossa per dare una mano. E la gente, in quarantena davanti alla tv, non andava in panico perché vedeva i numeri che parlavano chiaro”.

Le strade di Shanghai in uno scatto di due settimane fa

Il costo del virus

Cristiano Varotti si è trasferito in Cina nel 2012 per amore – ha sposato una ragazza cinese – ma anche per gestire l’ufficio di rappresentanza della Regione Marche. Da un anno è un consulente per la gestione delle relazioni istituzionali tra l’Italia e la Cina. “Secondo me qui il Coronavirus ha inciso tantissimo sulle piccole imprese e sulle attività commerciali, che hanno dovuto tenere chiuso per un mese e mezzo. Questi commercianti non hanno la capacità finanziaria della grandi imprese – racconta – ma recupereranno in fretta, i cinesi hanno già ricominciato a correre. Hanno potenziato il digitale, le tecnologie e il telelavoro. Nei prossimi mesi mi aspetto una rivoluzione digitale, l’ennesima”.

Le scuole e le università, per esempio, che in Cina sono ancora chiuse in realtà non si sono mai fermate. “Sin da subito hanno introdotto lezioni telematiche online, sulle app, in remoto o in streaming. Ma è stato così facile perché era già tutto pronto, sfruttano da tempo la risorse digitali in questo senso”.

L’Italia ha un’economia più fragile, non solo secondo lui ma anche per il mondo intero. “Gli italiani non possono permettersi un mese di chiusura dei negozi, e il turismo che in Italia conta il 15% del Pil soffrirà tantissimo le conseguenze del virus”.

“E direi che da Shanghai è tutto”

Dopo 37 minuti al telefono su WeChat – perché Whatsapp e tutti gli altri mezzi di comunicazioni occidentali sono vietati dal governo – invia al Ducato qualche scatto dell’ultimo mese, digitando poi “E direi che da Shanghai è tutto”. Sua moglie è tornata in ufficio da ieri, le strade sono piene, c’è traffico, i ristoranti e i negozi stanno riaprendo. “Ogni giorno guariscono centinaia di persone. Il governo centrale di Pechino ha diminuito il livello di allerta in sei province e suppongo che già da domani questo provvedimento sarà esteso anche in altre zone – rassicura – il picco è passato e le cose stanno tornando alla normalità”.

Cosa gli resterà di questa esperienza? “La grande noia della quarantena e l’immagine di Shanghai, una città da 24 milioni di abitanti, totalmente vuota. Andare in bicicletta su queste strade enormi senza nessuno che ti viene incontro è una cosa forte”.

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