La Resistenza di Urbino contro il virus. Il mosaico di una città in dieci storie di speranza

di REDAZIONE (Articolo pubblicato nell’edizione del Ducato del 27 marzo 2020)

Urbino resiste contro il Coronavirus. Lo fa come un soldato in trincea dall’8 marzo, da quando cioè la provincia di Pesaro e Urbino è diventata zona arancione con un decreto della presidenza del Consiglio. Il provvedimento riconosceva il territorio come uno dei più colpiti dall’epidemia, lo blindava impedendo ogni ingresso e uscita. E la città perdeva la sua linfa vitale: gli studenti e i turisti. Gli anziani stentano a ricordare strade così deserte. Neanche col “nevone” del 2012 si era arrivati a tanto.

I primi a chiudere sono stati stati i cinema, i teatri e i musei. Anche Palazzo Ducale, fiore all’occhiello della città. L’11 marzo, con una nuova disposizione, è toccato anche a bar e ristoranti, che in alcuni casi avevano deciso di restare aperti per spirito di servizio e per dare un’apparenza di normalità.

Oggi resistono solo le farmacie, i supermercati e gli alimentari, anche se spesso con fasce orarie ristrette. Mentre le saracinesche si abbassavano, crescevano i casi di positività al Covid-19 nelle Marche. Il presidente della Regione, Luca Ceriscioli, ha detto che per il picco bisogna aspettare i primi di aprile. L’area più colpita è proprio la provincia di Pesaro e Urbino, in cui si trova la metà delle migliaia di positivi della regione.

In prima linea contro il virus c’è anche il Santa Maria della Misericordia, l’ospedale di Urbino. Secondo il piano regionale la struttura è no Covid. Dovrebbe quindi ospitare pazienti con altre patologie. Ma i medici e gli infermieri non hanno mai smesso di assistere casi positivi non solo dell’entroterra ma provenienti anche dalla costa. Gli ospedali di Pesaro e Fano sono infatti al limite della saturazione e molte persone vengono dirottate a Urbino.

L’amministrazione ducale è stata la prima nelle Marche a intuire la portata del pericolo. Il 23 febbraio, in anticipo rispetto alla prima ordinanza regionale, il sindaco Maurizio Gambini aveva emanato un’ordinanza che ha chiuso asili e scuole. Non è bastato a evitare che il virus colpisse la città e anche la sua giunta. L’assessore al Bilancio Giuseppina Maffei è risultata positiva al tampone ai primi di marzo e sindaco e assessori si sono messi in quarantena, lavorando da casa con videoconferenze.

E proprio quella del sindaco è una delle dieci storie di resistenza in giorni che Urbino non dimenticherà. Persone che vivono l’emergenza “dal fronte”, come il primario di anestesia e il caposala del 118. Chi sfrutta la tecnologia per svolgere il proprio servizio, come don Andreas e il rettore. Chi lavora in smartworking, come il proprietario dell’azienda Benelli. C’è lo studente fuorisede che resta per proteggere la sua famiglia e l’anziano urbinate che esorcizza la paura con una poesia in dialetto. Chi va avanti nonostante le difficoltà, come l’edicolante nella piazza centrale e l’interprete della lingua dei segni che racconta quotidianamente l’emergenza da Roma.

Storie di una città che non molla, convinta che presto gli studenti torneranno a festeggiare le lauree in piazza della Repubblica e i turisti ad ammirare a testa in su la bellezza dei torricini.

Il sindaco Maurizio Gambini: “Urbino, la prima a chiudere”

Tutto è cominciato domenica 23 febbraio, quando ho chiamato il presidente della Regione: ritenevo che fosse il caso di chiudere la provincia. Nelle Marche non c’erano ancora casi di contagio ma la vicinanza con l’Emilia Romagna, la presenza di universitari provenienti da tutt’Italia e dei familiari – era periodo di lauree – erano un potenziale rischio.

La sera del 23 febbraio il presidente Luca Ceriscioli mi ha esortato ad aspettare il giorno dopo, avrebbe emanato un’ordinanza regionale. Prima di chiamarlo mi sono consultato col rettore, con il presidente dell’Accademia di belle arti e con il direttore dell’Asur. Stavo aspettando l’ordinanza regionale ma quando il 24 Ceriscioli è stato bloccato dal presidente del Consiglio ho preparato l’ordinanza.

Sono stato il primo sindaco delle Marche. L’ho fatto senza consultare la giunta, ne è venuta a conoscenza soltanto due ore dopo ma ho avuto la loro piena approvazione. Ho poi mandato una Pec a Giuseppe Conte perché rischi erano già evidenti ma si continuava a ripetere che non ci si doveva fermare. Urbino, invece, si è fermata subito. Nessuno ha contestato l’ordinanza. La sanità, invece, mi ha lasciato perplesso.

A Urbino inizialmente non c’erano molti casi. Poi sono aumentati, forse per una cattiva gestione. Un residente in località Torre San Tommaso ha avuto la febbre a 40 per una settimana. Abbiamo dovuto sollecitarne il ricovero perché nessun medico, nonostante le numerose richieste, era andato a visitarlo. Il 118 sarebbe partito solo se fosse stato in crisi respiratoria. È andato in ospedale, da solo, con la sua macchina. È risultato positivo al virus ed è stato ricoverato immediatamente a Urbino per poi essere trasferito a Senigallia.

Dal punto di vista amministrativo, invece, sono soddisfatto. Gli urbinati non sono stati lasciati soli:  è stato attivato il servizio a domicilio per medicine e spesa a domicilio e gli anziani sono seguiti dalle assistenti sociali. Un ringraziamento va alla Croce rossa, aidirigenti scolastici, alle forze dell’ordine, al personale medico e infermieristico e a tutti gli operatori che lavorano nell’assistenza delle persone malate e in difficoltà.

In Comune ci siamo organizzati per le giunte on line, gli uffici hanno dato le ferie a scaglioni. Per 15 giorni anch’io ho lavorato da casa, sono stato in quarantena dopo aver avuto contatti con persone positive al virus. Era quasi come stare in ufficio ma ho scoperto un modo diverso di vivere la giornata. Io abito in campagna e ho una figlia di 6 anni, ho trascorso del tempo con lei. Poi sono tornato in Comune. A lavorare da qui siamo in pochi, si lavora da casa.

Il rettore Vilberto Stocchi: “Una lezione di resilienza”

È leggendo le riviste scientifiche come Nature e New England Journal of Medicine che ho avuto la percezione della gravità della cosa. Io sono un biochimico e sin da subito mi ha colpito l’analisi di Anthony Fauci, uno dei più illustri immunologi statunitensi, che attribuiva al Coronavirus un’altissima capacità di contagio. È da lì che ho capito che bisognava adottare tutte le misure possibili per arginare la diffusione.

In questa ‘battaglia’ al Covid-19 esistono due categorie di persone: quelli che, almeno inizialmente, hanno sottovalutato la situazione e quelli che hanno agito in un’ottica di prevenzione. Io sono contento di appartenere alla seconda categoria. Già a fine febbraio, quando ancora non c’era nessun caso nelle Marche, ho sin da subito sposato la linea di prudenza del presidente Luca Ceriscioli. In quei giorni così difficili sono stato in contatto continuo con lui e col ministro dell’Università Gaetano Manfredi. Da quando è iniziata l’emergenza sto costantemente davanti al pc o al telefono. Sono stanco, ma so che questi strumenti ci danno la possibilità di andare avanti in condizioni di sicurezza.

Certo, la mia vita ‘precedente’ mi manca. Al mattino quando arrivo all’università con la mia auto, scendendo da via Raffaello, sono solo. Mi manca la gente. La città è sempre la stessa: ci sono i palazzi, le mura. Ma dentro è vuota. Questo rende ancor più evidente quel senso di solitudine e impotenza di fronte all’imponderabile. Mi mancano i miei studenti. Guardarli negli occhi. Sono rettore dal 2014 ma ho comunque deciso di continuare la mia attività didattica. Adesso, come gli altri docenti dell’ateneo, svolgo il mio lavoro da remoto. Le lezioni online, per certi versi, sono state una piacevole scoperta: ho notato, per esempio, che gli studenti, rispetto a prima, fanno più domande. Nonostante questo, continuo a considerare le lezioni frontali insostituibili.

In questo momento passiamo più tempo in famiglia, ma lo facciamo sempre in presenza di qualcosa che ci condiziona. Nella mia vita ‘normale’ non accendevo mai la televisione. Ora guardo i tg e il bollettino della Protezione civile e vengo in contatto, ogni giorno, con la sofferenza. Tutto questo genera amarezza e preoccupazione. Ma siamo comunque chiamati a non far prevalere questi stati d’animo. Dobbiamo essere fiduciosi. Quando torneremo alla normalità dovremmo farlo in maniera prudente e intelligente. La nostra università ha fatto tutto il possibile per non creare ulteriori disagi agli studenti e al personale. Non sono saltate le lauree e le lezioni online funzionano. L’università c’è. Sta facendo e farà la sua parte, in una situazione che nessuno avrebbe immaginato all’inizio dell’anno accademico.

Il primario di Anestesia e rianimazione, Paolo Brancaleoni: “In prima linea. È il nostro dovere”

Mascherina, occhiale o casco con visiera, tre paia di guanti, tuta e camice. Queste sono le protezioni, minime, che dobbiamo indossare all’ospedale di Urbino, nel reparto di Anestesia e rianimazione di cui sono primario. Ma non è facile lavorare bardati così. Muoversi e prendersi cura del paziente, ma anche resistere fisicamente dopo turni di 12 ore. Una volta indossate le protezioni non puoi uscire dalla zona Covid, nemmeno per prendere una boccata d’aria. Ogni volta devi svestirti e lo devi fare nel modo giusto per non rischiare il contagio.

Siamo stanchi, lo sono tutti. Soprattutto infermiere e infermieri, loro fanno un grande lavoro in terapia intensiva. Ci alterniamo e li sostituiamo per quello che riusciamo. Nei giorni scorsi, dopo che hanno chiuso il pronto soccorso di Marche nord siamo stati sommersi da pazienti positivi. Eravamo pieni. Spero che l’onda alta passi presto perché altrimenti avremmo bisogno di altro personale anche se è difficile trovare medici specialisti in anestesia e rianimazione. In piena emergenza è venuto a darci una mano un medico anestesista in pensione, lo ringrazio per quello che ha fatto. Per la sua età, per i rischi che corre però, non me la sono sentita di chiedergli di fare altri turni. Piuttosto ne facciamo doppi noi, come sta già accadendo.

Le difficoltà che affrontiamo ogni giorno sono tante. Abbiamo rivoluzionato il reparto di anestesia, ci siamo dovuti attrezzare per poterci prendere cura dei pazienti positivi al virus. Abbiamo aumentato i posti letto da quattro a nove, unendo la terapia intensiva cardiologica con quella di rianimazione. Ora, è il 25 marzo, sono otto quelli ricoverati nel nostro reparto. Per comunicare tra un’area e l’altra, tra la zona Covid e quella no-Covid, dobbiamo usare il telefono, rischiando di contaminarlo. Dovremo trovare un altro modo, come i nostri cellulari personali che sono sempre incelofanati. Dobbiamo essere attenti sempre, in ospedale e non. Ad esempio, non vedo mia madre da un mese e non vivo più con le mie figlie e mia moglie, ma sto al piano di sotto in un altro appartamento. Sono 15 giorni che le vedo a distanza, ci sentiamo al telefono per lo più. Non voglio contagiarle. In questo modo sono vicino a loro, anche se lontano, e per questo sono fortunato.

Oltre a proteggere i nostri pazienti, dobbiamo salvaguardare anche noi stessi. Perché se medici, infermieri, si ammalano, si ferma tutto. E noi stiamo combattendo una gara contro questo virus. Il timore di ammalarsi c’è sempre, fa parte del  nostro lavoro, ma è il nostro dovere, è quello che dobbiamo fare. Siamo in guerra e noi rischiamo, non ci sottraiamo.

Gabriele Lani, capo del 118 di Urbino: “I miei ragazzi sono i veri eroi”

Sono giorni di fatica, lacrime e orgoglio. Il pronto soccorso di Urbino è sotto pressione ma io e i miei ragazzi del 118 abbiamo sempre cercato di rispettare la dignità di ogni paziente, anche di quelli costretti a sostare per qualche ora in ambienti come ambulatori o ex magazzini che in pochissimo tempo sono stati riadattati per l’accoglienza dei malati.

Tutto questo grazie agli infermieri che coordino, i miei eroi nella tempesta: alcuni rimangono anche oltre l’orario di lavoro, molti sono rientrati dalle ferie e altrettanti rinunciano ai permessi.

Certo i primi giorni sono stati di piena emergenza, arrivavano persone con febbre alta, tosse e difficoltà respiratorie e alcune venivano spostati direttamente in terapia intensiva. La ricerca di letti dove mettere i pazienti è continua e dobbiamo farlo in fretta perché il mezzo deve ripartire per prendere altri malati. È straziante.

Per fortuna non abbiamo avuto carenza di materiale sanitario come mascherine, tute protettive e guanti: consumiamo circa 280 kit al giorno, da indossare prima di andare a casa di un presunto contagiato, quando l’adrenalina si mescola alla paura. In quei momenti dobbiamo essere ancora più professionali.

In futuro però dovremo ripensare molti aspetti del nostro sistema sanitario, dalla progettazione degli spazi all’acquisto del materiale sanitario: vorrei che non ci fossero più discussioni per comprare un bocchettone dell’ossigeno o una barella in più. Abbiamo avuto la prova che potrebbero diventare fondamentali quando meno te lo aspetti.

Don Andreas, il parroco della chiesa dell’Annunziata: “La mia messa su Youtube”

Non potevo immaginare che un giorno mi sarei trovato a celebrare una messa in una chiesa vuota, con la mia voce che rimbomba nel silenzio. Eppure, con l’emergenza sanitaria, è successo. Per un sacerdote è un dolore forte, profondo, non vedere davanti a sé i fedeli. Adesso al loro posto, di fronte all’altare della chiesa dell’Annunziata, a due metri di distanza, c’è un cameraman con la sua telecamera e un parrocchiano che manda in onda i canti e le letture. Poi sono loro che montano il video e lo caricano su Youtube. È stato un giovane ad avere l’idea: mi ha proposto di non fermarmi, di continuare a regalare la messa a tutti, da casa. Tutto questo accade dall’otto marzo, è da quel giorno che celebro da solo le messe del sabato che poi giro ai contatti whatsapp la domenica.

I primi esperimenti hanno avuto successo: cinquecento visualizzazioni. Prima d’ora non avevo un bel rapporto con la tecnologia, non l’avevo mai sfruttata appieno. Fortuna che sono stato aiutato da queste due persone, il parrocchiano e il cameraman, mi hanno introdotto in un mondo che conoscevo poco.

Per il resto però, la mia vita di tutti i giorni, anche ai tempi dell’emergenza Coronavirus, è rimasta la stessa. Mi sveglio all’alba, mi dedico a uno dei miei momenti di preghiera. Poi scendo nella chiesa di Santo Spirito, in via Bramante, dove abito: faccio da “sentinella” ed espongo l’ostia consacrata nell’ostensorio per l’adorazione. Lì di solito c’è sempre un “via vai” di fedeli. Adesso ne incontro solo qualcuno, sono soprattutto anziani che, dopo la spesa o la commissione alle poste, fanno una scappatina in chiesa. Vengono anche alcuni giovani. Qualcuno ha il rosario in mano, guarda dritto l’ostia consacrata mentre con le mani divide le coroncine e recita a voce bassa un’ave maria. Sorrido loro da lontano, anche io mi rifugio ore e ore nella preghiera. Questo è il “contatto” che mi rimane con loro. Non posso più nemmeno fare confessioni, in tanti ne sentono la mancanza e mi chiedono di farle al cellulare. Non li confesso non perché non voglio, ma perché come dice papa Francesco ora bisogna scoprire il rapporto personale con Dio.

È tanto anche il tempo che passo a casa. Con tanti fedeli ci scambiamo telefonate: ci inviamo sms, messaggi vocali o videomessaggi. A volte le telefonate sono tante e così dico loro di chiamarmi a un’ora precisa concordando un momento della giornata per una chiacchierata tranquilla. Sono mamme, figlie, nonne in cerca di conforto o di una semplice chiacchiera. E sempre al cellulare parlo con amici sacerdoti, quelli della Lombardia, la terra in cui sono nato. Mi dicono che lì da loro vivono la situazione allo stesso modo se non peggio. In quella regione vanno a benedire di continuo le salme delle persone uccise dal virus.

Anche io mi divido tra l’obitorio e il cimitero per celebrare funerali in forma ristretta: qualche preghiera e la benedizione. Certo, non posso abbracciare un fratello che piange per aver perso, magari, il padre o la madre. Questo distacco obbligato, questa freddezza soprattutto quando c’è di mezzo la morte, sono difficili da sopportare.

Ma la fede è più forte di tutto questo, da questa tragedia usciremo tutti un po’ più cristiani e forse anche più uomini. E spero che chi sta coltivando un rapporto con Dio riesca a continuare a coltivarlo, a conservarlo dentro di sé, anche quando tutto sarà finito.

Paolo Viti, imprenditore e direttore della Benelli: “La fabbrica vuota fa paura”

Passeggiare per una fabbrica vuota mi fa stringere il cuore. È una cosa che fa paura, perché la nostra è un’azienda viva, con tante persone che qui, nello stabilimento vicino alla vecchia stazione, la animano.

Alla Benelli il rapporto umano è molto forte, senza differenze di ruolo, un po’ come in una famiglia. Mi manca il contatto con i colleghi, il prendere il caffè insieme a loro, ma le direttive del governo sono state chiare e noi ci siamo immediatamente adeguati. Noi siamo chiusi dal 20 marzo e, almeno fino al 3 aprile, in azienda non ci sarà più nessuno. Io, come tutti i dipendenti che possono farlo, lavorerò da casa. L’unica eccezione varrà per il nostro portiere perché, per legge, una fabbrica d’armi deve sempre essere sorvegliata da almeno una persona.

Qualcuno dei dipendenti ha avuto paura. Si preoccupava della  sicurezza sul lavoro. Io ho sempre risposto di stare tranquilli, perché avevamo adottato alla lettera tutte le misure di sicurezza. Ho persino inviato una lettera, prima dell’esplodere dell’epidemia, per raccomandare di avere sempre un atteggiamento responsabile, evitando luoghi affollati. Ovviamente non volevo intromettermi nella vita privata dei lavoratori della Benelli. I miei erano soltanto i consigli di un buon padre di famiglia.

Io di paura non ne ho mai avuta. La paura si sconfigge con la preparazione, attuando tempestivamente le direttive e prendendo le giuste precauzioni. In questa situazione drammatica, l’unico aspetto positivo, se così si può dire, è che riuscirò a passare un po’ più di tempo con i miei figli. Solitamente torno a casa sempre tardi, dopo le otto. E riesco a starci insieme molto poco. Questa è un’ottima occasione per ristabilire con loro un rapporto ancora più forte.

Piero Seraghiti, edicolante di piazza della Repubblica: “Il rito collettivo perduto”

La piazza centrale di Urbino si sveglia ogni mattina con i miei passi. È ancora buio quando, alle 6, apro l’edicola e aspetto il camion dei giornali. La città è ferma, vuota, non si sente un rumore. Sorge il sole, arriva il farmacista, poi la signora della Tim, i miei due “vicini di negozio” e poi persone, colori, rumori. Un ricordo del passato: adesso ci siamo solo noi tre, in fila, che scrutiamo la piazza deserta e grigia.

Passo la mattinata a preparare le rese ai fornitori. All’inizio andava decentemente, adesso quotidiani e riviste arrivano e si accumulano sul bancone. Vendiamo 70/80 quotidiani, non di più. Non mi sono messo a fare i conti ma non so se andiamo in pari.

Alle 13 chiudo l’edicola e me ne vado a casa, cerco di scacciare i pensieri. Adesso il pomeriggio lo trascorro sul divano, di fronte alla tv, o facendo un po’ di giardinaggio. Leggo qualche libro e un paio di giornali. Alla fine sono diventato il miglior cliente della mia edicola.

Quello che mi manca di più sono le persone, in una mattina ne passano a malapena trenta. Prima, si fermavano a fare due chiacchiere, portavano il calore di un rapporto umano, adesso entrano uno per volta, lo scambio è freddo e veloce, altri sono in attesa fuori. Il virus ha cambiato anche i rapporti con i clienti, ci ha reso distanti.

A fine marzo a Urbino il vento si è fatto forte, la temperatura è scesa, si è visto anche qualche fiocco di neve. Il tempo mi rende triste, soprattutto quando, all’alba sollevo con le mani gelate pile di giornali già pronti per andare al macero. Ma l’importante è non stare male, non ammalarsi di paura. Cerco di non abbattermi, tengo duro, anche solo per rispetto di chi continua a venire per una rivista o un saluto.

Affrontiamo ogni giorno nel migliore dei modi, stiamo vicini, continuiamo a vivere. Abbiamo superato il nevone, supereremo anche il virus. Aspettando la primavera.

Vincenzo Neglia, studente siciliano rimasto a Urbino: “Resto qui per proteggere mio padre”

Aula studio e libri, mensa e poi il circolo culturale “Venerini” guidato da Suor Mariglena. Questa era la mia “routine” un po’ prima della quarantena obbligata per l’emergenza Coronavirus. Ero già rinchiuso in casa a studiare prima ancora della decisione del governo, avevo deciso di impegnarmi sul serio per trovare un metodo di studio efficace. La sessione d’esame di dicembre non era andata molto bene. E così mi ero isolato da tutti e da tutto, non mi regalavo più le uscite in piazza con gli amici per lasciare tutte le mie energie per rimediare agli esami. Poi però è arrivata la chiusura in camera “vera” e, stranamente, la sto vivendo con una certa serenità: con le lezioni online e lo studio, certo, ma passo molto più tempo con gli altri studenti fuori sede rimasti come me a Urbino al collegio “Il Colle”. E poi disegno, suono la chitarra e curo un alberello di albicocco. A modo mio ogni tanto prego, da solo o insieme ai miei amici del circolo in videoconferenza, ci facciamo forza a vicenda. E proprio tra questi amici c’è la mia fidanzata Adriana, di Bari, fuori sede come me. Ci siamo messi insieme proprio poco prima che iniziasse l’emergenza.

All’inizio ci vedevamo spesso da soli in giro per i vicoli di Urbino, poi quando tutta la situazione è diventata più seria abbiamo continuato a vederci a casa sua. Poi però ci siamo continuati a sentire solo per videochiamata, vedersi diventava rischioso e scegliere di convivere da subito non era la scelta giusta.

Tra poco festeggiamo un mese, avevamo pensato di organizzare una giornata di nascosto. Ma poi abbiamo deciso che la passeremo a casa, a distanza, magari con una cena, ciascuno per conto suo e collegati con whatsapp. Poi, quando sarà possibile le darò quell’alberello che in questi giorni sto facendo crescere per lei, bello e forte vicino alla mia scrivania, pensando che lo potrà tenere presto tra le sue mani.

In città mi sento tranquillo e sto bene, tutti rispettano le regole. Però mi manca, soprattutto adesso adesso che arriva la primavera, il mare cristallino della mia Cefalù, la sua costa di sabbia bianca e la sua cattedrale normanna, ma sarebbe stato sbagliato tornare in Sicilia, avrei potuto mettere in pericolo la mia famiglia. La scelta di vivere questo momento da solo, qui a Urbino, lo considero un gesto d’amore verso i miei genitori e un’occasione per fortificarmi. Mia madre è in salute, ma mio padre ha diverse patologie: decidere di tornare sarebbe stata una scelta rischiosa. E poi loro sono tranquilli, anche se tristi, a sapermi qui perché sanno che rispetto le norme. Ci basta una videochiamata di gruppo per sentirci uniti.

Fortunato Galeotti, 85 enne urbinate e poeta dialettale: “Le mie paure: i nazisti e ora il virus”

Da più di dieci giorni sono ai “domiciliari”. Non esco di casa per paura: i miei polmoni sono così malandati che se mi prende il Coronavirus mi possono pure dare una “schioppettata”. Vivo da solo, nella speranza di non avere bisogno del Pronto soccorso fino a quando non sarà finita l’emergenza, sto attento a ogni incidente casalingo che potrebbe capitarmi. Ho 85 anni e, alla mia età, il riposo non stanca mai. Anche se mi mancano le gite in macchina o le passeggiate con il mio cane da tartufo.

La strada davanti casa è tornata quella di una volta: senza macchine, deserta. In questi giorni, non si sente nessun rumore. Per fortuna ci sono i colombi e i miei due cani, che fanno i bisogni davanti a casa, a farmi compagnia. Sento per telefono amici e parenti. Manca soltanto il caffè preso insieme, ma non voglio lamentarmi perché so che c’è chi sta peggio di me.

Ho sempre vissuto a Urbino, non ricordo di essere stato in nessun altro posto. Quando c’è stata la guerra vivevo in una casa mezza diroccata. Ricordo che per scaldarsi ci si ammassava tutti davanti al fuoco. Mia mamma quando lasciava me e i miei fratelli soli in cucina ripeteva “Che nessuno vada alla credenza”, perché le fette di pane erano contate. Adesso è un’altra storia: abbiamo la televisione, internet, il telefono. Non so se ho avuto più paura dei tedeschi allora o del Coronavirus oggi.

Ma sicuramente oggi è più facile vivere la paura. Il lunedì il fornaio mi porta il pane, lo prendo con i guanti e poi lo passo al forno per qualche minuto, per sicurezza. Poi lavo le mani con il sapone da bucato. Per le medicine ho chiamato il servizio del Comune e me le hanno portate in mezz’ora. E anche per la spesa penso che farò così. Finora non ho avuto bisogno di niente perché avevo la dispensa piena.

In guerra, scoprivi se avresti mangiato soltanto all’ora di pranzo. Adesso invece potrei andare avanti così per molti mesi. Quando mi voglio riposare mi metto al computer e leggo, sia libri che fumetti, e scrivo qualche ricordo e poesia in dialetto. Mi sono anche divertito a disegnare il Coronavirus nell’atto di prendersi il mondo, con le sue lunghissime mani avvolgenti. Ma è solo un modo per ingannare il tempo.

Susanna Di Pietra, interprete Lis del presidente del Consiglio: “La mia battaglia vinta”

Quando mi hanno detto che, sabato 21 marzo, per la prima volta, avrei dovuto fare l’interprete in lingua dei segni per il presidente del Consiglio ho provato una grande emozione, mai mi sarei aspettata che nella mia vita mi capitasse una cosa del genere.

Interpretare in lingua dei segni, Lis, l’annuncio di misure destinate a cambiare così nel profondo la nostra vita in questo periodo di grave emergenza sanitaria. Io con la lingua dei segni ci sono cresciuta, è come se fosse la mia lingua madre perché i miei genitori sono sordi. L’ho imparata per comunicare con loro e adesso mi è capitato di farlo di fronte a milioni di italiani. Un’emozione per me certo, ma soprattutto per gli oltre 70.000 che, in tutta Italia, non possono sentire. Invece, grazie alla lingua dei segni, hanno potuto seguire in televisione i momenti cruciali di questa terribile stagione.

Avevo cominciato ad apparire al fianco del capo della Protezione civile Angelo Borrelli, davanti a milioni di persone, per interpretare i bollettini giornalieri. Quando mi ha chiamato Giuseppe Petrucci, presidente dell’Ente nazionale sordi, per avvisarmi di questo incarico che mi era stato affidato ero contenta e ho accettato. In questa situazione di emergenza non sono numeri facili da interpretare, ma io devo essere il più neutrale possibile. Secondo la mia etica, è come indossare una giacca: devo trasmettere il messaggio, ma le emozioni rimangono chiuse.

Anche se in famiglia comunichiamo con la lingua dei segni – i miei nonni e mia sorella sono udenti – per dieci anni ho studiato e mi sono specializzata in Lis all’Ente nazionale sordi e all’Istituto statale per sordi di Roma. Lavoro anche nelle scuole con i bambini. Ma in Italia la lingua dei segni non è riconosciuta e questo mi dispiace. Ha una propria grammatica che deve essere rispettata e l’Ente nazionale sordi sta combattendo in Parlamento per un riconoscimento che, spero, avvenga presto. Proprio in questo senso mi è dispiaciuto che il giorno in cui ho affiancato per la prima volta Giuseppe Conte la mia interpretazione in Lis non sia stata trasmessa su tutte le reti né sulla pagina Facebook del presidente del Consiglio. C’era solo sul canale YouTube di palazzo Chigi.

Una comunicazione così importante doveva avere piena accessibilità in diretta per tutti. Gli anziani sordi non hanno i canali social e nel nostro Paese l’interprete non è mai previsto, quindi è sempre a carico del sordo. Martedì 24 però è andata meglio. Ero presente nell’angolo destro dello schermo di tutti gli italiani, in diretta televisiva e sulla pagina Facebook di Conte. Come in Spagna, in Francia e in Brasile, finalmente il discorso del presidente era affiancato da un interprete in lingua dei segni. Dico grazie all’Ente nazionale dei sordi che ha lottato per tutto ciò.

Adesso anche i sordi possono sentirsi alla pari degli udenti. Alla sera, finito il lavoro, scarico la tensione che in questo periodo è più alta del solito. E penso spesso, alla mia terra natale, alle Marche. Sono preoccupata, penso e rifletto ai valori della famiglia, all’affetto dei miei cari. Mia mamma ora si trova con la nonna nel comune di Monteleone di Fermo. Tutte le estati da Roma, dove vivo fin da piccola, quando mia madre si trasferì per lavoro, torno a casa per stare con cugini e parenti.

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