Disturbi alimentari nelle Marche: tante donne, sempre più uomini e pochissime strutture

A sinistra la modella Sylwia Rzewuska (affetta da lipedema) e a destra Wiki Pawlak (affetta da bulimia) fotografate da Joanna Watala
di FRANCESCA DE MARTINO e RACHELE SCODITTI

URBINO – Briciole che pesano quintali, cibi che diventano mostri e mostri che diventano cibi. La paura della morte, il terrore della vita. La voglia di sparire, non di apparire. I disturbi del comportamento alimentare (Dca) non sono un capriccio, sono spesso un’implicita richiesta di aiuto per qualcosa che va oltre il numero segnato sulla bilancia. È questo che provano centinaia di persone ogni giorno nelle Marche. Dove a soffrire di Dca sono soprattutto donne, ma dove gli uomini sono più della media nazionale. Dove per curarsi spesso si devono fare le valigie, lasciare le famiglie e andare lontano da casa perché nella loro terra non ci sono abbastanza strutture sanitarie a offrire un’assistenza adeguata.

Abbiamo raccolto i dati delle aziende sanitarie marchigiane che gestiscono le strutture pubbliche che curano i disturbi alimentari per gli anni 2017 e 2018. E ne viene fuori una fotografia regionale molto diversa dal quadro nazionale. Alcuni dati è stato come guardarli allo specchio (nelle Marche l’anoressia è più frequente della bulimia, in Italia il contrario). Altri invece come dei buchi nelle immagini (sono pochi i malati diagnosticati).

Disturbi del comportamento alimentare nelle Marche (2017)

Disturbi del comportamento alimentare nelle Marche (2018)

I casi di anoressia, in tutto il territorio marchigiano, sono circa uno ogni diecimila abitanti (lo 0,013% nel 2018, ultimi dati disponibili). In pratica il doppio rispetto ai casi di bulimia (lo 0,007%). La diffusione di queste due patologie è inversa al resto d’Italia dove, secondo i dati del Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute l’incidenza dell’anoressia nervosa è dello 0,2-0,8% (quindi tra 20 e 80 casi ogni diecimila abitanti) mentre quella della bulimia nervosa è dell’1-5% (tra 100 e 500 casi ogni diecimila).

Stefano Erzegovesi, primario del centro per disturbi alimentari del San Raffaele di Milano, sottolinea la gravità di questi disturbi: “L’anoressia è la patologia più grave, più rara e con una mortalità più alta ed è diffusa principalmente tra gli adolescenti più giovani”.

“Se mangiavo una caramella, dovevo correre a vedere quante calorie avesse. Un giorno un mio compagno di liceo per il suo compleanno portò a scuola dei biscotti. Una professoressa mi incitò a mangiarne uno e dopo nemmeno un morso andai in crisi. Due o tre volte al giorno mi dovevo pesare, la bilancia era la mia ossessione più grande”. Chiara, 21 anni

L’anoressia nervosa è la malattia psichiatrica con il tasso di mortalità più elevato, supera il 10%. I disturbi del comportamento alimentare sono la seconda causa di morte nella popolazione femminile in adolescenza, dopo gli incidenti stradali. Nel 2016 le vittime sono state 3.360. I dati sono però in difetto, perché i decessi dovuti a disturbi alimentari si presentano spesso sotto altre forme, in particolare arresti cardiaci.

“Durante l’anoressia pensavo spesso al suicidio. Provavo una forte inquietudine per il futuro, che mi spaventava, dovuta al fatto di non poterlo controllare o gestire, non sapere quello che sarebbe stato. Ero così nervosa che non riuscivo nemmeno a stare seduta sul divano, dovevo sempre essere in movimento. Camminavo velocissima”. Chiara, 35 anni

“Anche io ero molto depressa e ho tentato il suicidio in passato. Sentivo un malessere, una sensazione orribile dentro. Un ribrezzo verso me stessa e tutto ciò che faceva parte di me. Un dolore che non sapevo da dove provenisse e riversavo su me stessa”. Valentina, 20 anni

“Poi un giorno mi sono guardata allo specchio e mi sono spaventata. Pesavo 30 kg. Stavo malissimo ed ero seriamente ossessionata dal cibo. Passavo ore e ore nei supermercati senza comprare nulla ma solo per guardare gli alimenti sugli scaffali. All’inizio il non mangiare mi faceva stare bene. Quando ho capito che così sarei morta, ho ripreso piano piano a mangiare”. Chiara, 35 anni

“Io addirittura pesavo meno di 29kg. Nel periodo peggiore dell’anoressia, durante la giornata mangiavo solo una fettina di melone da nemmeno 100 grammi e delle verdure a pranzo e cena. Adesso ho un piano alimentare e riesco quasi sempre a seguirlo, anche se ogni tanto magari uno spuntino salta”. Valentina, 20 anni

L’anoressia e la bulimia si sviluppano durante l’adolescenza: “La prima ha un esordio più precoce rispetto alla seconda – spiega Erzegovesi – queste due patologie colpiscono per il 90% donne e sono molto collegate tra loro, chi soffre di anoressia può evolvere in bulimia e viceversa”.

Molto diverso è invece il Binge eating disorder (disturbo da alimentazione incontrollata). “Si tratta di una patologia a sé stante – continua il primario – riguarda pazienti più adulti ed è diffusa in modo uguale tra uomini e donne, 50% uomini e 50% donne”.

Nelle Marche il Bed è stato il disturbo più frequente nel 2018: quattro diagnosi su 10 di disturbi alimentari sono state diagnosi di Bed, un aumento del 10% rispetto all’anno precedente (dal 32% al 42% del totale dei Dca) quando le diagnosi di anoressia e Bed contavano per un terzo dei casi ciascuno.

Mi abbuffavo, da sola, al buio, nella mia stanza, lontana da tutto e da tutti. Tutto è iniziato quando avevo 19 anni. Sono arrivata a pesare 150 kg. Avevo le analisi sballate, il mio peso non era normale e dovevo arrivare a una decisione utile per me”. Martina, 23 anni

“Dopo il primo periodo di anoressia avevo degli attacchi di fame impulsivi. Non ero mai sazia. Sentivo il bisogno di mangiare e avevo anche 5/6 abbuffate al giorno. Mi facevo prendere dai sensi di colpa e quindi andavo a vomitare. Poi ho smesso di vomitare e il peso sulla bilancia ha iniziato a salire”. Debora, 32 anni

A volte si è portati a pensare che i disturbi del comportamento alimentare siano delle patologie prettamente femminili. In realtà negli ultimi anni è stato confermato sia che il numero di persone di sesso maschile che soffre di un Dca è più alto di quanto si credesse, sia che l’incidenza di queste patologie è in costante aumento. E i dati delle Marche sembrano confermare questa ipotesi.

Uno studio condotto da Anna Maria Speranza, professoressa di psicologia dinamica a La Sapienza di Roma, afferma che il 95,9% delle persone affette da Dca sono donne e solo il 4,1% uomini. Nelle Marche, invece, gli uomini sono più colpiti rispetto alla media nazionale: sono il 15% nel 2017 e l’11% nel 2018.

Secondo il dottor Blake Woodside, professore di psichiatria all’Università di Toronto, la diagnosi di Dca nei maschi è sempre stata problematica. Basti pensare che uno dei più importanti sintomi della malattia è considerato l’amenorrea, ovvero l’assenza del ciclo mestruale. Solo da qualche anno è stato eliminato il criterio diagnostico di amenorrea dall’anoressia nervosa. Anche per questo molti casi di anoressia maschile non sono stati mai diagnosticati come tali oppure sono stati diagnosticati con grave ritardo.

“Inoltre – ha spiegato Woodside – il fatto che i disturbi alimentari siano stati considerati una patologia tipica del sesso femminile ha contribuito a creare un contesto culturale per cui spesso i maschi non accettano una diagnosi di Dca e non chiedono aiuto. In media un maschio con disturbi alimentari inizia una terapia quando sono trascorsi circa sette anni dall’esordio della malattia, mentre per le femmine al massimo quattro anni”.

“Nel momento in cui non riuscivo ad arrivare alla perfezione, mi sentivo un fallito. Probabilmente è questo che mi ha portato alla malattia e che porta la maggior parte dei ragazzi ad ammalarsi. La ricerca della perfezione, anche fisica. Mi allenavo molto, seguivo una dieta ipocalorica e iperproteica. Fino a quando, insieme a 50 kg, non ho perso anche il controllo”. Alessandro, 42 anni

Comunque, il numero di casi rilevati dalle strutture sanitarie marchigiane di anoressia, bulimia e Bed sono molto più bassi di quanto l’incidenza nazionale farebbe pensare. Se le percentuali delle persone anoressiche in Italia corrispondessero a quelle nelle Marche, nella regione dovremmo avere 3000 casi, mentre in realtà ne abbiamo circa 200.

Per spiegare questo fenomeno ci sono due ipotesi. La prima è che i dati sono in difetto perché provengono dalle cartelle ospedaliere e spesso chi soffre di un Dca non se ne rende conto o rifiuta una cura.

“Non pensavo di avere bisogno di aiuto. L’anoressia per me era una forma di protesta e uno stile di vita. Volevo dimostrare che non avevo bisogno di niente, di conseguenza nemmeno del cibo. Era un modo per sentirmi forte”. Chiara, 35 anni

“La prima volta non capisci mai che ti sei ammalata, lo capisci quando perdi il controllo. All’inizio c’è la fase detta “luna di miele”, dove inizi a dimagrire e credi di avere tutto sotto controllo, pensi di poter smettere quando vuoi e ricominciare la tua vita. In realtà poi non ricominci più”. Debora, 32 anni

La seconda ipotesi per spiegare i casi mancanti è la mancanza di strutture. Le Marche ne hanno solo cinque, una ogni 300.000 persone circa. Nonostante questo è una delle regioni del Centro-Nord, insieme a Emilia-Romagna e Toscana, con più strutture in rapporto alla popolazione. La Lombardia che ne ha 21, ha 10 milioni di abitanti, dunque conta una struttura ogni 475.000 persone. Il Veneto, con 10 strutture, ne ha una ogni 400.000.

Mappa strutture per Dca in Italia

Laura Dalla Ragione, psichiatra, psicoterapeuta e referente scientifico del Ministero della Salute per i disturbi alimentari, conferma: “In Italia le strutture non sono distribuite in modo equo tra una regione e l’altra. Questo comporta una mobilitazione extraregionale dei pazienti. Per quanto riguarda le Marche, l’offerta assistenziale risulta purtroppo carente a livello di riabilitazione residenziale, essenziale per i pazienti che presentano una elevata gravità. Per chi è in pericolo di vita è necessario il ricovero ospedaliero. Per questo motivo nel 2017 sono stati 53 i pazienti con Dca che hanno effettuato un ricovero fuori regione, mentre nel 2018 sono stati 62. Ricordiamo i percorsi residenziali hanno una durata minima di 3 mesi, con un impatto economico non indifferente”.

Il problema, purtroppo, riguarda tutta Italia. Nonostante nel nostro Paese ci siano tre milioni di persone che soffrono di Dca, con 8500 nuovi casi ogni anno, le strutture sono 146 in tutto il Paese. Di queste solo 53 offrono ricovero ospedaliero e 34 riabilitazione residenziale. Il resto sono ambulatori o day hospital.

“Sono stata vista da almeno una quarantina di dottori. Negli ultimi anni ho avuto una ricaduta dalla quale non mi sono più rialzata anche perché ho avuto un incidente di percorso con la terapia. Ancora non mi accettano l’ingresso in una struttura pubblica”. Debora, 32 anni

“A Cagliari ho iniziato a seguire una terapia che mi impegnava una volta a settimana. Non notavo risultati e quindi ho scelto un centro attrezzato: Villa Miralago, in provincia di Varese. La Sardegna non è preparata a curare questo genere di disturbi e quindi era l’unica scelta da fare. Sono stata lì un anno e mezzo. Mi hanno seguita a livello emotivo e mi hanno aiutata a gestire totalmente la mia malattia”. Martina, 23 anni

“Anche io ho fatto un percorso simile a quello di Martina. Una volta a settimana andavo in un ambulatorio a Lecce lontano da Taranto, la mia città. Quando ho capito che non mi bastava più, ho chiesto il ricovero. La mia regione però non offre questo servizio e sono dovuto andare in Veneto”.  Alessandro, 42 anni

Numeri alti anche a Pesaro e Urbino

La provincia di Pesaro e Urbino rispecchia la situazione marchigiana. I pazienti di Dca soffrono più di Bed e anoressia. La bulimia, fra le tre patologie, rimane quella meno diffusa: anche qui le donne sono le protagoniste con l’88%.

Rispetto al resto della Regione, non c’è una fascia d’età che spicca in particolare: soffrono di Dca allo stesso modo i pazienti dai 12 ai 25 anni e quelli con più di 40 anni d’età.

Nel grafico qui sopra il numero dei casi dei diversi Dca nella provincia di Pesaro e Urbino dal 2016 al 2019 forniti dall’Asur.

Dal 2017 al 2018 nelle province di Fermo, Ascoli e Macerata c’è stato un picco di bulimia che passa dal 15% al 20% e la Bed cala dal 42% al 39%.

Dalla prevenzione alla diagnosi

Secondo Erzegovesi sulla diagnosi si stanno facendo passi in avanti: “C’è molta ricerca che permette di intervenire all’inizio di una malattia anche perché più le diagnosi sono precoci, più la terapia funziona meglio”.

Ma sulla prevenzione c’è ancora molto da lavorare: “Purtroppo ci sono poche risorse, sia economiche che come personale specializzato, e questo è un problema generale dell’ambito dei disturbi alimentari”.

“Si potrebbe fare più prevenzione nelle famiglie e nelle scuole – conclude Erzegovesi –  perché i Dca non sono patologie diffuse ma, avendo un’alta mortalità, hanno bisogno di essere intercettate il prima possibile, spiegando cosa fare ai familiari o agli insegnanti. Per quanto riguarda la cura, sul territorio nazionale ci sono poche strutture che consentano un ricovero ospedaliero del paziente, infatti la rilevante mobilità extraregionale che si verifica è sicuramente un problema di cui occuparsi”.

“Se un Dca viene preso all’esordio è possibile guarire completamente. Io me lo porto dietro da anni. Non dico che mi sono rassegnata a questa vita, perché questa non è vita, ma non guarirò mai al 100%. Ci si può convivere, ma vedo lontana la possibilità di essere senza pensieri sul cibo”. Debora, 32 anni

Ricerca e sperimentazione: avatar in 3D 

E a confermare che la ricerca si evolve c’è chi, con una borsa di studio per giovani ricercatori, propone metodi innovativi per aiutare i pazienti, soprattutto quelli malati di anoressia e bulimia. Basta indossare un casco virtuale, sedersi su un lettino da mare e vedere il proprio corpo cambiare di dimensione attraverso un avatar in 3D. Così gli anoressici e i bulimici possono lavorare sulla percezione che hanno del proprio corpo e arrivare a capire e ad accettare l’importanza di un corpo sano.

È questa l’idea che sta alla base del progetto di ricerca guidato da Ilaria Bufalari, professoressa associata di Neuroscienze cognitive all’Università La Sapienza di Roma, e portato avanti da un team di ricercatori della sua Università e della Fondazione Santa Lucia.

Tre gli avatar prodotti: uno che riproduce la versione attuale del corpo del paziente, uno grasso e l’altro magro. “L’idea è stata sottoposta sia a un gruppo di pazienti che a soggetti sani – spiega al Ducato la Bufalari – quello che le donne vedevano con il casco era un corpo simile al proprio in termini di grandezza e di proporzione dei vari segmenti corporei e che veniva digitalmente ingrassato e dimagrito così da far credere loro che si trattasse del proprio fisico”.

D’altronde l’aspetto psicopatologico centrale è la base di queste patologie: chi ne soffre si vede grasso quando in realtà non lo è e quindi ha una visione distorta della realtà. “Quello che vedevano le pazienti con il casco – prosegue la Bufalari – era un corpo ingrassato o dimagrito rispetto a quello che loro pensavano di avere e abbiamo visto che questa illusione (chiamata in gergo scientifico ‘di embodiment’) poteva modificare l’immagine vera del proprio corpo”.

Con la proiezione dell’immagine “grassa” o “magra” viene fuori un aspetto fondamentale della terapia, quello emotivo: come reagiscono nel vedersi con un corpo più grande o più piccolo. “Per esempio quando viene mostrato loro l’avatar più grande – aggiunge la dottoressa – provano una serie di emozioni negative perché il loro ‘terrore’ è proprio vedersi in quel modo”.

“Alla vista del corpo magro – prosegue – hanno invece emozioni positive perché lo ritengono il più attraente di tutti mentre per le pazienti sane il corpo più in carne era quello più bello”.

La ricerca nell’ambito dei Dca si potenzia e tecniche come questa che hanno l’ambizione di essere d’aiuto alle cure: “Siamo dei ricercatori e non dei clinici, il nostro obiettivo non è quello di trovare la cura definitiva per l’anoressia – conclude la Bufalari – ma sicuramente l’aspetto cognitivo può essere di grande aiuto a un paziente che in genere riconosce difficilmente la malattia: sottoporre loro ripetutamente a questa tecnica li potrebbe portare gradualmente alla guarigione”.

“Spesso sento che basta un minimo per mandarmi in tilt, però riesco ad assaporare nuovi cibi e a trovare i mezzi giusti per guarire. Perché sono fermamente convinta del fatto che si possa guarire. Molti pensano che si possa solo convivere con la malattia, io no. Ma il percorso è lungo e complicato”. Valentina, 20 anni

“Certo che si guarisce, io oggi mi sento assolutamente guarita. Lo so dal momento in cui non mi faccio problemi se mangio tre grammi di pasta in più, o la pizza due volte a settimana. Però bisogna avere a fianco persone che ti facciano sentire la loro presenza”. Chiara, 21 anni

Scheda: non solo anoressia, quali sono i Dca? 

I disturbi del comportamento alimentare sono patologie caratterizzate da un’alterazione delle abitudini alimentari. I principali e più frequenti sono l’anoressia nervosa, la bulimia nervosa e il disturbo da alimentazione incontrollata.

Ce ne sono, però, molti altri anche se più rari.

Anoressia nervosa: Dal greco anorexia, significa letteralmente “mancanza di appetito”. Il termine non è proprio corretto perché chi ne soffre ha fame, ma rifiuta il cibo e ha paura di ingrassare anche quando è sottopeso. La persona malata vede il corpo in modo alterato e non si rende conto della gravità della sua situazione. Dimagrire rappresenta una conquista e una dimostrazione di autodisciplina mentre, al contrario, l’acquisizione di peso rappresenta una perdita di controllo.

Bulimia nervosa: Dal greco boulimía, significa letteralmente “fame da bue”. Questo disturbo è caratterizzato da grandi abbuffate seguite però da sensi di colpa e comportamenti compensatori quali: vomito autoindotto, utilizzo di lassativi, estenuante attività fisica. Per questo spesso chi soffre di bulimia è normopeso.

Binge eating disorder (Bed): Il disturbo da alimentazione incontrollata è caratterizzato da episodi ricorrenti di abbuffate, almeno una volta a settimana per tre mesi, accompagnate da una sensazione di perdita del controllo. A differenza della bulimia, però, alle abbuffate non seguono comportamenti compensatori. Le persone che soffrono di Bed tendono, durante queste abbuffate, a mangiare più velocemente del solito, da soli o di nascosto per vergogna, anche se non si sentono affamati e alla fine provano un forte disgusto per se stessi, depressione e sensi di colpa. Sono spesso persone obese o sovrappeso.

Picacismo: Questo disturbo del comportamento alimentare è caratterizzato dal mangiare sostanze non commestibili di ogni tipo. Si tratta, ad esempio, di sabbia, terra, cotone, legno. Spesso al picacismo vengono associati anche disturbi mentali come autismo, schizofrenia o disabilità intellettiva. Chi soffre di picacismo rischia avvelenamento, gravi lesioni interne e occlusioni dell’apparato digerente.

Avoidant restrictive food intake disorder: Chi ne soffre esclude dalla propria dieta alcuni cibi o mangia solo quelli di un certo tipo, colore, gusto, consistenza. Dietro a questo disturbo c’è la paura che un determinato cibo possa causare problemi o malesseri senza un motivo reale, come allergie, il soffocarsi o il vomitare. A volte invece c’è semplicemente un mancato interesse nei confronti del cibo e del mangiare.

Disturbo da ruminazione: i soggetti affetti da questo disturbo vomitano il cibo ripetutamente dopo aver mangiato. In particolare il disturbo da ruminazione è caratterizzato da rigurgito in bocca senza nausea, involontari conati di vomito, disgusto e rimasticazione

Other specified feeding or eating disorder (Osfed): Una persona presenta alcune delle caratteristiche di un determinato disturbo alimentare, ma non le soddisfa al punto da essere diagnosticato in uno di essi.

Chiara, storia di un Dca: “Abbiate paura di morire, non di vivere” 

Ma un Dca non si ferma a una spiegazione scientifica. È qualcosa che solo chi vive può capire realmente. Chiara, 24 anni, che ha sofferto per tanto tempo di anoressia ci ha aiutato a farlo.

Quando ti sei accorta di avere un problema? 

Mi sono accorta di essermi ammalata una sera del 2015 a cena al ristorante con un amico. Ha proposto di ordinare una grigliata per due, io gli avevo detto che amavo qualsiasi tipo di carne. Una volta arrivata la grigliata, però, ho iniziato a tremare. Ero a dieta da un po’ e seguire alla lettera il mio piano alimentare senza sgarri, per me era la normalità. Da quella volta invece ho capito che qualcosa stava andando in corto circuito.

L’inizio di un lungo percorso, di caduta e risalita. 

È difficile descrivere ciò che mi passava per la testa. A tratti pensavo a cose concrete. Gli unici momenti della giornata in cui ero lucida erano i momenti di studio. Stavo finendo gli esami per potermi laureare e la mia mania del perfezionismo non si è tirata indietro neanche in quel caso. Ho sempre portato a termine gli esami con ottimi voti nonostante avessi un annebbiamento del cervello abbastanza marcato. 

Quali erano i tuoi pensieri? 

Pensavo a cosa mangiare per cena che riuscissi a digerire. Pensavo a quante calorie avevo bruciato. Pensavo a farmi i piani alimentari che fossero sempre in quantità misere, così da poter avere fame. Io volevo avere fame, perché questo significava star dimagrendo e, quindi, stare male. Era come se ci fosse in me una voce che mi ripeteva che dovevo sparire per poter poi permettermi di dire che avevo vissuto l’inferno. 

Il cibo e la fame erano un’ossessione… 

Non avevo pensieri che non riguardassero cibo o addominali in vista. Che poi erano ossa, non addominali. Pensavo a camminare il più possibile, a mangiare in piedi per bruciare più calorie, a comprare al supermercato cose che non ho mai cucinato solo per il gusto di averle nel frigo e dire che stavo seguendo una dieta salutare.

All’ossessione per il cibo se ne sommavano altre… 

Facevo almeno 150 foto ogni mattina al mio addome per controllare che fosse tutto nella “norma”. Compravo batterie a dismisura perché il mio schiumino per il latte doveva funzionare alla perfezione, altrimenti avrei dovuto buttare tutta la mia colazione o, addirittura, non mangiare perché il latte non aveva la schiuma che volevo io. Usavo soltanto un tipo di forchetta e un tipo di cucchiaio. Mi lavavo le mani diverse volte al giorno. Pulivo tutta casa prima dei pasti altrimenti non avrei mangiato: disordine e sporcizia mi disturbavano, anche quando non c’erano realmente.

Oltre alla perdita di peso, quali problemi a livello fisico ti ha portato l’anoressia? 

Molti problemi a livello intestinale. E, in realtà, devo dire di essere stata fortunata. Al di là dell’irregolarità e qualche problema di digestione non ho avuto problemi a livello osseo o muscolare.

Sulla tua malattia hai scritto un libro alla fine… 

Tutti i miei pensieri più “compiuti” di quel periodo li ho poi raccolti – insieme a quelli avuti durante il periodo della mia ripresa – nel mio libro pubblicato nel 2019 “#blessed: Ogni storia è una bella storia”. Quel libro è insieme la mia morte e la mia rinascita. A volte lo rileggo per avere memoria di ciò che provavo, perché molte cose mi rendo conto oggi di averle rimosse, quasi come per protesta.

Qual era la tua giornata tipo? 

Dipende dalle fasi. Se parliamo della fase più nera la mia giornata tipo era svegliarmi, cercare a tutti i costi di andare in bagno, anche a costo di usare lassativi, pesarmi, controllarmi allo specchio, fare mille foto ai miei addominali, cambiarmi, andare in palestra per tre ore circa di cui un’ora di sola cyclette. Tornare a casa, mangiare non più di uno yogurt greco 0% di grassi per pranzo. Riempirmi con coca cola zero e citrato digestivo. Studiare. Cenare con verdure grigliate ripassate con acqua (non più di 150 g), lavorare al ristorante dei miei, tornare a casa e dormire.

Il cambiamento di Chiara (foto di Chiara Ruggeri)

C’è qualcosa o qualcuno che pensi ti abbia salvato? 

Mi sono salvata da sola. Era la fine del 2017 e durante un esonero di storia moderna sono caduta in mezzo alla classe per andare a prendere un foglio alla cattedra. Mi sono vergognata di me stessa. Mi sono spaventata. Era il 18 dicembre. Dopo aver passato tutto il giorno di Natale a piangere in braccio a mia madre dicendole che non mi sentivo più la faccia, le ho detto che avevo trovato il modo per uscire da quell’inferno: la palestra. Avevo capito che era il mio unico appiglio. Mangiare per allenarmi. Contattai un preparatore atletico e seguita a distanza, allenandomi ma facendo forza sulla mia voglia di vivere, il 1 gennaio 2018 ho cominciato a mangiare. Ogni giorno di più.

Come vivi ora il tuo rapporto con il cibo?

Il mio rapporto con il cibo è rimasto un po’ meccanico. Nel senso che tendo sempre a schematizzare o a tenere sotto controllo quanto e come mangio. Tuttavia non c’è ossessione né maniacalità. Sono convinta che dopo il grande salto le cose abbiano il loro tempo di evolvere. 

Secondo te si può guarire definitivamente da un disturbo alimentare o non se ne esce mai? 

Un disturbo alimentare è il sintomo di un altro problema, qualcosa di cui non ci accorgiamo o che semplicemente sopprimiamo per talmente tanto tempo da far finta di non ricordarcene. Se ne esce nel momento in cui si arriva alla radice del reale problema e si strappa via quella. 

Tutto ciò va oltre la mera ricerca di un corpo magro, non si tratta solo di aspetto fisico che forse è l’ultima componente della malattia. Secondo te perché una persona si ammala? 

Una persona si ammala quando c’è qualcosa di irrisolto che proviene dal passato. Se tornassi nel 2015 avrei tanto voluto che Chiara mi prendesse la mano e mi dicesse “vai bene anche così”, mi sarebbe bastato. Nel mio caso la ricerca perenne della perfezione per dimostrare agli altri il mio valore mi ha portata, paradossalmente, a svalutarmi. È stato un modo per gridare “aiuto, sono stanca!” e allo stesso tempo “guardate: è questa la perfezione che volete? Devo arrivare a tanto per farmi amare?”. 

Quando hai sentito di essere veramente guarita, di non avere più la vulnerabilità di ricadere nella malattia? 

Ho sentito di essere guarita dall’anoressia quando ho capito di avere fame. Quando ho capito che non ho bisogno di dimostrare a nessuno che sono brava a non mangiare. Non è una dote. Non è una qualità, non è una necessità. La necessità è mangiare per vivere e vivere per stare bene con noi stessi e con gli altri. Il cibo deve essere un contorno e, perché no, un modo per star bene e in salute. Non di certo per farsi male e portarsi alla morte. A tutte le persone che soffrono di Dca, vorrei dire: “Abbiate paura di morire, non di vivere”.

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