Randagismo, l’odissea dei cani senza padrone

di MARCO FERRARI e FEDERICO SOZIO

La fake news sul boom dei cani abbandonati a causa del Coronavirus ha cominciato a circolare dalla seconda settimana di marzo. E prima di essere smentita dall’Enpa, l’Ente nazionale per la protezione animali, la notizia ha generato una lunga serie di reazioni sia nel mondo dei social sia in quello delle istituzioni. Migliaia di persone su Facebook, Instagram e Twitter hanno risposto al falso allarme postando una fotografia del proprio amico a quattro zampe con l’hashtag #iononticontagio. Mentre Angelo Borrelli, il capo della Protezione Civile, durante la conferenza stampa giornaliera del 19 marzo, ha invitato in modo chiaro ed esplicito tutta la collettività a non abbandonare i propri animali domestici. 

La vicenda non aveva niente di vero ed era nata dal timore che i cani potessero contrarre il Covid-19 e contaminare le proprie famiglie. Argomento sul quale è poi intervenuto l’Istituto superiore di sanità, specificando che gli animali domestici possono occasionalmente ammalarsi di questa malattia ma che non esistono, a oggi, evidenze scientifiche che dimostrino una loro responsabilità nel propagarsi del virus.

La fake news ha avuto però il merito di accendere i riflettori su un fenomeno nazionale gravissimo e sin troppo trascurato, quello dell’abbandono. Una pratica che ogni anno contribuisce ad alimentare la piaga del randagismo canino: il fenomeno che interessa i cani vaganti senza padrone da soli o in branco.

INDICE

Tra i 500 e i 700 mila
cani vaganti in Italia

Nel nostro Paese si stima vi siano tra i 500 e i 700.000 cani randagi, ridotti in questa condizione perlopiù a causa di due motivi: l’abbandono e la nascita da animali in libertà. La valutazione è stata effettuata nel 2012 dal sottosegretario alla Salute del governo Monti, Adelfio Cardinale, e, secondo le associazioni del settore, è ancora valida per chiarire a grandi linee i contorni del fenomeno, per quanto in maniera approssimativa.

Quando un cane viene rinvenuto vagante su un territorio viene trasportato al canile sanitario, il luogo deputato a effettuare la prima accoglienza degli esemplari catturati o ritrovati. Qui l’animale viene sottoposto a una prima visita veterinaria e, se è regolarmente iscritto all’anagrafe canina, la banca dati informatica in cui vengono registrati i cani di proprietà, viene prontamente restituito al proprietario. L’identificazione avviene attraverso la lettura del microchip, un minuscolo apparecchio elettronico che contiene i dati del cane e del padrone, iniettato sottopelle nella zona del collo. 

Se il cane non possiede il microchip e se nessuno ne rivendica la proprietà, dopo un periodo di circa 60 giorni (ma il periodo varia da regione a regione), viene prima “microchippato” e iscritto all’anagrafe canina e, successivamente, ricollocato in un canile rifugio: una struttura di più ampie dimensioni destinata ad accoglierlo fino al momento dell’adozione. 

Va specificato però che in molte zone d’Italia l’obbligo di legge che impone di identificare il proprio cane con il microchip è poco rispettato. E ciò comporta che se un cane si smarrisce oppure viene abbandonato non c’è niente che possa ricollegarlo al suo proprietario. Nel Sud Italia e nelle isole, per esempio, la percentuale di restituzione al detentore dei cani rinvenuti vaganti e passati per i canili sanitari nel 2018 era estremamente bassa: dell’8,3%, contro il 38% del centro e il 71,9% del nord. Un dato che, se abbinato alla percentuale delle adozioni dei cani presenti nei canili rifugio dello stesso anno (50,1% al nord, 34,9% al centro e 24% al sud) riesce parzialmente a spiegare il motivo per cui queste strutture, nel meridione, sono le più congestionate del Paese. Nel 2018, infatti, il 67,1 per cento dei 98.596 cani presenti nei canili rifugio del territorio nazionale si trovava proprio nel Mezzogiorno. 

È tuttavia da segnalare il fatto che il numero dei cani presenti nei rifugi al sud e nelle isole ha subito, dallo scorso anno, una diminuzione del 6%, passando dalle 70.399 del 2017 alle 66.206 del 2018.

Nello stesso anno in Italia si contavano un totale di 1.186 canili, dei quali 448 sanitari e 738 rifugio. Un numero in aumento rispetto all’anno precedente, in cui se ne registravano 1.148 (+3.3%). La distinzione tra canile rifugio e canile sanitario risale al 1991, anno in cui è stata approvata la legge quadro numero 281 in materia di affezione e prevenzione al randagismo. La stessa che ha limitato l’abbattimento dei randagi soltanto ai casi di grave malattia, incurabilità o di comprovata pericolosità.

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Adozioni e sterilizzazioni:
i numeri del Paese

Secondo Ilaria Innocenti di Lav (Lega anti vivisezione) sono essenzialmente tre gli indicatori che fanno emergere il fenomeno del randagismo canino in Italia: il numero dei cani all’interno dei canili rifugio, il numero dei cani restituiti al proprietario e il numero dei cani vaganti presenti sul territorio.  

Tuttavia è molto difficile, se non impossibile, stabilire con certezza quest’ultimo parametro, vista la mancanza di un accurato censimento dei cani realizzato con criteri statistici omogenei in tutte le Regioni e le province autonome del Paese.  

Questo è quindi, secondo l’esperta, il primo aspetto da affrontare per risolvere il fenomeno perché indispensabile a “elaborare un piano di prevenzione di portata nazionale”. Ma non l’unico. È anche necessario effettuare una serie di controlli per verificare l’identificazione dei cani con o senza il microchip e, al contempo, implementare l’interoperabilità delle anagrafi regionali tra loro e con la banca dati nazionale, attualmente non in grado di interagire efficacemente. 

Importantissime sono anche le campagne di sterilizzazione e di adozione consapevole. Nel 2018 le sterilizzazioni in Italia sono state 35.381, in aumento del 13% rispetto all’anno precedente. Eppure ancora troppo poche, secondo l’esperta, per raggiungere l’obiettivo preposto: “Nonostante la legge preveda che i cani detenuti nei canili debbano essere sterilizzati – dice Ilaria Innocenti – , uno dei potenziali serbatoi di futuri randagi sono quelli che al momento dell’adozione escono senza aver subito questa procedura. Un problema su cui occorre agire cercando anche la sinergia tra veterinaria pubblica e privata”.

Le adozioni, invece, hanno subito a distanza di un anno una lieve diminuzione, passando alle 45.063 del 2018 dalle 45.468 del 2017 (-0,9%). Un dato non preoccupante, ma che lascia spazio ad abbondanti margini di miglioramento, soprattutto al sud. Il meridione, infatti, possiede sia il primato per numero di adozioni sia la più bassa percentuale di esse a livello nazionale (in rapporto al numero dei cani presenti nei canili rifugio). Ciò significa che se il numero delle adozioni è leggermente superiore a quello del nord il numero dei cani presenti nei canili rifugio al sud e nelle isole è di oltre 4 volte superiore.

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Canili rifugio:
una spesa da 126 milioni di euro l’anno

Ogni cane presente in canile costa allo stato italiano almeno 3,50 euro al giorno, cifra ricavata da una circolare del ministero della Salute in cui veniva indicato l’importo minimo necessario per assicurare all’animale un adeguato mantenimento. Questa somma, se moltiplicata per il numero dei cani presenti nei soli canili rifugio del territorio nazionale, nel 2018 presentava un conto giornaliero di circa 345.000 euro e annuale di 126 milioni. Le Regioni che hanno speso di più, nello stesso anno, per il mantenimento dei cani nei canili rifugio sono state la Campania, con una spesa annuale di oltre 26 milioni di euro, la Puglia, con oltre 24 milioni, il Lazio e la Sardegna, con più di 11 milioni di uscite. 

Il rispetto e la corretta applicazione della legislazione vigente in materia, quindi, non sono necessari soltanto per garantire condizioni di vita più dignitose a questi animali ma anche per far risparmiare alla collettività cospicue quantità di denaro. 

Quello del randagismo è un circolo in cui ogni azione umana va a condizionare il risultato finale. Influiscono sia le scelte delle istituzioni, sia quelle degli operatori dei canili sanitari e rifugio, sia quelle dei privati cittadini. 

I canili rifugio sono strutture pensate per un soggiorno del cane più a lungo termine. Ma non definitivo. Motivo per cui, questi impianti possono dirsi efficienti solo a condizione che, una volta garantito il benessere degli animali, il loro ricambio sia costante. E questo viene consentito, ovviamente, dalle adozioni.

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Il buon esempio di
Lombardia e Milano

Un caso virtuoso del panorama italiano nella lotta al randagismo e nella gestione dei canili del suo territorio è la Lombardia. Nel 2018 all’interno della regione la percentuale dei cani restituiti al detentore era del 100% contro una media nazionale del 40,1% e le presenze all’interno dei canili rifugio piuttosto moderate, 2.862, circa il  il 2,9% del totale nazionale.

Andando più nello specifico e analizzando i dati del suo capoluogo, Milano, è emerso che qui il numero dei cani catturati e rinvenuti sul suolo del Comune ha subito, a partire dal 2010, un progressivo abbassamento, passando dalle 387 unità di quell’anno alle 144 del 2019 (- 62,8%).

Anche il numero delle restituzioni al proprietario, negli ultimi anni, ha subito una diminuzione. Ma ciò è da attribuirsi perlopiù al calo degli ingressi riscontrato all’interno del canile sanitario: nel 2010 sono stati riconsegnati al proprio padrone 428 cani mentre nel 2019 303 (- 29,2%). E nello stesso arco temporale, si è poi abbassato il numero dei cani deceduti all’interno della stessa struttura, passato dalle 59 unità del 2010 alle 11 del 2019 (-81,4%).

Persino i dati forniti dal Canile rifugio della città sono positivi. Il numero degli ingressi nel 2011, 262, si è bilanciato quasi interamente con quello delle uscite, 230. Un trend mantenuto anche negli anni successivi fino al 2019, quando gli ingressi sono stati 208 e le uscite 221. Un turnover garantito, probabilmente, da un’efficace politica delle adozioni.

Adottare un cane a Milano, così come nel resto d’Italia, non è semplice: sono infatti necessari due controlli, uno pre e uno post affido per portare a termine la pratica. E questo dopo aver prima visionato il cane e compilato un questionario pre-adottivo per consentire ai volontari di individuare l’animale più adatto alle esigenze e allo stile di vita dell’aspirante proprietario.

Il percorso è così pensato proprio per fare in modo che il soggetto interessato abbia ben chiaro l’impegno che adottare un cane comporta e per prevenire il fenomeno dell’abbandono. “Il cane non è un oggetto e non ce ne si può disfare come di qualcosa che non serve più – sostiene Roberta Guaineri, assessore al Turismo, Sport e Qualità della vita del Comune di Milano con delega alle politiche per il benessere e la tutela degli animali – Nessuno ci costringe a portare a casa un animale ma una volta che lo si fa si diventa responsabili del suo benessere per tutta la vita”. 

La cautela nelle adozioni non è però l’unica arma messa in campo dall’amministrazione milanese per contrastare il fenomeno dell’abbandono e, di conseguenza, del randagismo. “Il Comune di Milano realizza e diffonde periodicamente campagne di sensibilizzazione insieme a patrocini ed eventi finalizzati al contrasto di questo fenomeno – continua la Guaineri – Nel bando di gara per l’affidamento dell’appalto di gestione del canile è stato specificatamente richiesto personale con esperienza nel campo della cura e della riabilitazione dei cani di questo genere e nel nuovo Regolamento per il benessere degli animali è stata inserita la misura del patentino. Uno strumento che incentiva una “adozione consapevole”, limitato ai proprietari di cani di razze potenzialmente pericolose. Una delle maggiori cause di abbandono, infatti, è l’incapacità di gestire il proprio cane, in quanto non se ne conoscono caratteristiche ed esigenze”. 

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(Fonti e note metodologiche: per il punto di vista nazionale sono stati utilizzati i dati della Lega anti vivisezione, che raccoglie ogni anno quelli delle regioni italiane e delle province autonome per fornire un quadro del fenomeno del randagismo. I dati raccolti da Lav escludono dal computo la regione Calabria, che non ha fornito i dati relativi al 2018 e, per il solo caso delle sterilizzazioni, anche la Liguria e la Toscana. Per il punto di vista milanese, invece, sono stati utilizzati i dati forniti dall’Agenzia di tutela della salute e dal Comune di Milano)

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