G8 Genova: vent’anni dopo, il racconto di chi partì da Urbino. Il fumo la fuga, le botte

Di ALICE TOMBESI

URBINO – “Abbiamo sentito arrivare i militari, che marciavano, e un elicottero si è abbassato su di noi. Ci avevano individuato. Ci siamo seduti nell’androne di un cortile dove hanno cominciato a picchiarci con i manganelli, io ero davanti quindi ne ho prese parecchie. Mentre mi manganellavano mi spruzzavano spray asfissiante in bocca”. A ricordare i tragici eventi del G8 di Genova, esattamente vent’anni fa è una ragazza di Urbino, all’epoca dei fatti aveva 28 anni. Racconta al Ducato la sua esperienza con la voce rotta. Desidera restare anonima: “Ho partecipato alla manifestazione in Corso Italia. C’erano i black bloc che stavano devastando tutto, così la polizia ha cominciato a caricare. Io sono riuscita a scappare”.

Prima di allora, aveva già partecipato ad altre manifestazioni ma il trauma di quei giorni ha avuto a lungo ripercussioni sulla sua vita: “Sono tornata allo stadio Carlini e ripartita prima degli eventi della Diaz. Per arrivarci mi sono nascosta dietro gli alberi per paura che mi intercettassero i blindati. Da allora non sono più tornata a una manifestazione”.

A Palazzo Ducale otto leader delle potenze mondiali (c’era ancora la Federazione russa) si riunirono con l’intento di fissare degli obiettivi per sconfiggere la povertà. I vicoli e le piazze di Genova, intanto, erano invase da cortei e manifestazioni di movimenti no global che protestavano contro il modello di sviluppo economico basato sulla globalizzazione. Soprattutto tre luoghi – piazza Alimonda, la scuola Diaz e la caserma di Bolzaneto – hanno definito la geografia di massacri e di sangue che ha segnato Genova.

In quei giorni, tra gli urbinati a Genova, c’era anche Simone Cecchini: nel 2001 aveva 20 anni, tre in meno di Carlo Giuliani che però, da Genova, non se ne andò mai: “Siamo andati su il giorno dopo la sua morte. Non accettavamo che uno di noi fosse stato ucciso durante una manifestazione. All’inizio la situazione sembrava tranquilla poi è degenerata:  un gruppo di black bloc stava assaltando una banca e poi si sono infiltrati nel gruppo dei manifestanti – racconta Cecchini – a quel punto la polizia ha caricato forte e siamo stati schiacciati davanti al carcere di Genova. Non c’era via di fuga, i vicoli erano stati tutti chiusi”.

Amnesty International sostenne, in seguito, che quello che successe al G8 del 2001 fu “la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la Seconda guerra mondiale”. Le forze dell’ordine agirono come cani sciolti, senza alcuna regola se non quella della prevaricazione e della violenza.

La morte di Carlo Giuliani e la ‘macelleria messicana’ alla Diaz

Per il 20 luglio erano previsti cortei in diversi punti della città. Fin dal mattino il blocco nero aveva cominciato a muoversi per la città, bruciando cassonetti e spaccando vetrine, infiltrandosi tra i manifestanti. Il corteo più importante era quello delle tute bianche: 25 mila persone che dallo stadio Carlini dovevano arrivare fino alla zona rossa, una parte inviolabile della città protetta da un muro di otto chilometri. L’obiettivo delle tute bianche era di violare la zona rossa in modo simbolico.

Alle 17.30 i militari dovettero spostarsi verso piazza Alimonda seguiti da due camionette Defender. Una delle due rimase incastrata e venne presa d’assalto da alcuni manifestanti. Tra loro c’era anche Carlo Giuliani che alzò un estintore sopra la sua testa per lanciarlo contro gli agenti. Un carabiniere, Mario Placanica, estrasse la pistola e sparò a Carlo due colpi. Poi, passando sopra il corpo del ragazzo due volte, il defender riuscì a ripartire. Negli atti del processo che seguì, è divenuta famosa la comunicazione tra due funzionari di polizia: “Uno a zero per noi” aveva detto una donna al collega, riferendosi all’uccisione di Carlo.

Murales dedicato a Carlo Giuliani in un parco di Berlino

“C’era l’esigenza di fare molti arresti per poter recuperare l’immagine delle forze dell’ordine” disse il dirigente della polizia Ansoino Andreassi al processo per i fatti della scuola Diaz. La notte del 20 luglio, tre minuti prima della mezzanotte, un blindato sfondò le porte del comprensorio Diaz dove c’erano due scuole, la Pascoli e la Pertini. Lì dove dormivano centinaia di ragazze e ragazzi, soprattutto stranieri, e dove c’era il quartier generale del Genoa social forum, si accanì la violenza delle forze dell’ordine. Alla fine di quella che un funzionario della polizia al processo definì ‘macelleria messicana’, si contarono 82 feriti. Quella sera doveva esserci anche Simone Cecchini:” Non avevo soldi per tornare a casa e mi sarei dovuto fermare alla Diaz. Per fortuna me li hanno prestati e sono riuscito a prendere il treno per Urbino”. Nonostante il tentativo delle forze dell’ordine di trovare una giustificazione alle violenze o mistificare i fatti, le inchieste e le indagini che seguirono quella notte non fecero altro che confermare ciò che era accaduto.

La caserma di Bolzaneto

A 15 chilometri dal centro di Genova, c’è la caserma di Bolzaneto. È lì che vennero portati i fermati della manifestazione del 20 e 21 luglio e della scuola Diaz ed è lì che proseguirono le violenze. Almeno 500 tra i manifestanti vennero sottoposti a torture sia fisiche che psicologiche. Alcuni vennero fatti stare in piedi con il volto rivolto verso il muro e le mani alzate, mentre sotto suonavano canzoni fasciste. Le ragazze vennero minacciate di essere stuprate con i manganelli. Chi era ferito venne colpito sulle ferite. La notte tra il 20 e il 21 luglio i cancelli del carcere di Bolzaneto si aprirono e chiusero in continuazione, a bordo dei furgoni centinaia di ragazzi.

“Sono tornato a casa prima della notte alla Diaz – racconta Michele Gambini, professore di storia al liceo Mamiani di Pesaro -. Ero arrivato a Genova il giorno dopo la morte di Giuliani e ho partecipato a una manifestazione. Ad un certo punto i militari hanno cominciato a lanciare i lacrimogeni dal nulla e noi a scappare. Abbiamo trovato rifugio in un monastero. Ricordo la sensazione orribile di doverci proteggere dalla polizia. In una città che non conosci, scappare è un incubo”.

A vent’anni da quei giorni che scossero l’Italia, sappiamo che lo stato di diritto scomparve da Genova lasciando al suo posto violenza e sangue: “Di quei giorni ricordo l’aria pesante e i ragazzi che mentre suonavano la chitarra piangevano” dice Simone.

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra e di terze parti maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi