Fgcult 2021, Fornasari: “Guardatemi, sono Bologna, via Zamboni è il mio pollice”

L'architetto Fabio Fornasari
di BEATRICE GRECO

URBINO – Due bicchieri bianchi poggiati sul pavimento della Sala del Trono, la più importante di Palazzo Ducale. Dieci passi a tenerli distanti. In mezzo Fabio Fornasari, architetto e direttore artistico del Museo Tolomeo dell’Istituto dei Ciechi Cavazza, racconta cosa voglia dire percepire lo spazio per una persona non vedente di fronte al pubblico del Festival di giornalismo culturale. Fa avanti indietro tra un bicchiere e l’altro, guardando altrove. Ma con lo sguardo periferico riesce sempre a capire dove si deve fermare. Poi chiude gli occhi e la meta, il bicchiere, si fa più difficile da raggiungere.

“L’immaginazione è infinita, la conoscenza passa per l’esperienza”

Un esempio pratico, fatto durante il dibattito ‘Le parole dell’architettura’, per far capire le difficoltà di chi non vede.  Tra i relatori, Fornasari è l’unico che si alza in piedi, mostra col corpo quello di cui vuole parlare. “Lo spazio, le architetture, le città si possono raccontare con il corpo umano: bisogna raccontare gli organi che li compongono” afferma.

Io sono Bologna, il mio pollice è via Zamboni

Così si alza in piedi e si trasforma, in una volta, nella cartina di Bologna. Non è una magia, usa solo il suo corpo per spiegare la struttura della città emiliana. Il suo tronco è il cardo, le sue braccia aperte, parallele al pavimento, diventano il decumano e le sue dita si trasformano nelle tante strade che si snodano dalla via principale. Il pollice destro è via Marconi, l’indice via Lame, poi – continuando – cita San Felice, Pratello e Nosadella. Passa alla mano sinistra dove, sul pollice, c’è via Zamboni, San Vitale, Strada Maggiore, Santo Stefano e il mignolo diventa via Castiglione. Ma le due mani sono anche Dante Alighieri e il De Vulgari Eloquentia, sono il motivo per cui il Sommo Poeta non ha scelto la lingua parlata a Bologna come lingua perfetta. Perché nelle due mani si parlavano due accenti troppo differenti.


Al centro, dove c’è il cuore, la Fontana del Nettuno. Sulla fontana c’è scritto ‘fatta ad uso del popolo’  (in latino, Populi commodo) proprio come il cuore è fatto ad uso del corpo. “È così che spiego Bologna a chi non può vederla. Così chi mi ascolta può capire sul proprio corpo come raggiungere un punto A da un punto B – dice l’architetto al Ducato -. Bisogna decostruire la complessità: bisogna ridurla ma senza banalizzarla. Bisogna smontarla in elementi semplici e noti a tutti. Per far questo analogie e similitudini sono fondamentali”. È così che trasmette la conoscenza Fornasari, puntando – lo rimarca diverse volte – all’autonomia e non solo all’accessibilità.

La cultura si fa corpo

Così, senza saperlo (o forse sì), Fornasari dà una risposta alla domanda che sottende – tra le righe – tutto il Festival. Come fare per rendere la cultura alla portata di tutti? Rendendola semplice, ma non banale. Facendola diventare corpo ed esperienza, così da farla propria, anche fisicamente. Ma per questo ci vogliono tre cose: “Cura, competenza e pazienza – sottolinea l’architetto -. Per prendersi cura di qualcuno o qualcosa, è necessario averne competenza, che però si raggiunge nel tempo e con pazienza”.

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