Anna Masera, la public editor saluta i lettori: “Giornali e Odg chiusi e ‘resistenti’ al digitale”

di ROSSELLA RAPPOCCIOLO

URBINO – La rubrica #PublicEditor de La Stampa chiude. Anna Masera, la giornalista che se ne occupava, va in (pre)pensione, lasciando un vuoto che non sarà colmato, almeno per il momento.  Nata quasi sei anni fa, era un unicum nel panorama editoriale italiano. Dialogo con i lettori, risposte alle critiche e alle incomprensioni rispetto agli articoli e comunicazione trasparente. Un tramite tra giornale e pubblico nel periodo più difficile per l’autorevolezza dei media. Masera riflette proprio sulla resistenza dei giornali a mettersi in discussione e interagire con i lettori. Il fallimento dell’Ordine dei giornalisti nell’aggiornare i professionisti sugli strumenti digitali e offre alcuni spunti: pochi contenuti ma di qualità, meno allarmismo nella comunicazione e un’organizzazione “ribaltata” rispetto a quella tradizionale, che ancora resiste ma non funziona più.

Parliamo di quello che è stato il suo lavoro negli ultimi anni. Cosa fa un public editor? 

“Posso solo dire come ho interpretato io il ruolo, perché quella del public editor non è una figura molto diffusa, nemmeno all’estero. Dovrebbe dipendere solo dall’editore (e non dalla redazione ndr) per essere indipendente dal giornale. Non è stato il mio caso, ma sono comunque riuscita a svolgere il mio ruolo. Un public editor rappresenta il pubblico all’interno del giornale, rispondendo alle critiche dei lettori rispetto a questioni controverse o dubbie”.

Un ruolo che nel giornalismo italiano non c’era. Adesso che va in pensione, cosa pensa di questa esperienza? Qual è il bilancio complessivo?

“Complessivamente è stata un’ottima esperienza, sono grata alla Stampa per aver avuto fiducia in me e soprattutto per lo spirito innovativo di inserire la figura del public editor, che è mal digerita dai giornalisti. Inizialmente curavo la rubrica settimanale su carta e online, dove rispondevo ai lettori sia via email che attraverso l’opzione ‘segnala errore’ negli articoli online. Nell’ultima fase, con l’acuirsi del declino dei giornali, è stata abolita la rubrica cartacea. Questa scelta non è piaciuta ai lettori affezionati anche alla carta e ha determinato un cambiamento importante. In generale, nel tempo, i lettori hanno perso la speranza di essere ascoltati e si rivolgevano a me per sfogarsi”.

La figura di public editor non verrà ricoperta da altri, almeno per adesso. Pensa che sia una perdita per i lettori? Perché, secondo lei, in Italia nessun altro giornale ha deciso di avere un rapporto più diretto con i lettori? 

“I lettori perdono un punto di riferimento. In generale, però, credo che i giornali tradizionali preferiscano rimanere chiusi, non hanno capito che all’era dei social mettersi in discussione sarebbe un vantaggio. Bisogna poi considerare che i giornali sono in crisi, hanno poche risorse e mantenere un public editor è per loro difficile. Infine, bisogna anche sottolineare che oggi il dialogo tra giornalisti e pubblico è alla pari grazie alla rivoluzione social, mentre prima le conoscenze erano più calate dall’alto al basso. Questo cambiamento del rapporto infastidisce i giornalisti che devono fare un atto di umiltà per accettare le critiche dei lettori e correggersi. Perciò la figura del public editor è mal digerita”.

Il giornalista (e profondo conoscitore dell’ecosistema digitale) Mario Tedeschini Lalli ha commentato su Facebook il suo pre-pensionamento scrivendo: “Era una eccezione mal sopportata, torna dunque la normalità nelle redazioni italiane: come lavoriamo sono fatti nostri”. È così?

“Forse sì. L’istituzione della mia figura era un esperimento che aiutava i lettori anche a capire l’organizzazione interna dei giornali. Senza, i giornali rischiano di rivolgersi solo ad un pubblico d’élite e a perdere la fiducia del pubblico”.

Tra le “soluzioni” a una crisi del giornalismo, ha parlato di trasparenza nel riportare fonti e dati, di deontologia (per quanto riguarda i suicidi per esempio), di titoli meno allarmistici e più “corretti”. Queste non sono regole basilari che dovrebbero valere da quando il giornalismo è nato?

“Lo sono, ma con la crisi economica sono state spesso tralasciate per vendere più copie del giornale. Questo è un modello di business sbagliato volto solo alla resistenza. In questo modo i giornali diventano infotainment, cioè poca informazione e molti contenuti clickbait. Ed è così che finisce l’informazione pubblica, quella accessibile a tutti, deontologica, con il fine di contribuire a migliorare la società. Bisogna invece trovare una soluzione per mantenere un’informazione corretta in questa fase di declino economico dei giornali. Una buona proposta è quella di Annamaria Testa, un’esperta di comunicazione che ha rilanciato l’idea di creare una piattaforma in cui i lettori possano pagare per leggere i singoli articoli, di varie testate, a cui sono interessati”.

In generale, i giornalisti fanno un uso corretto dei social? Serve una alfabetizzazione digitale?

“Purtroppo i social sono ancora poco considerati nel giornalismo. Questo è un grande fallimento dell’Ordine dei giornalisti perché non è riuscito nell’aggiornare i giornalisti sull’uso degli strumenti digitali, oggi indispensabili per la professione. Non ci dovrebbe essere un social media manager che si occupa di traslare i contenuti sui social, ma tutti i giornalisti dovrebbero saper già lavorare in modo social. Invece, non solo nelle testate i social sono gestiti da queste singole figure, ma non c’è nemmeno comunicazione tra queste e i giornalisti, con l’inevitabile conseguenza che ci sia poco dialogo con il pubblico. Inoltre, molti giornalisti rischiano di screditare le testate per le quali lavorano quando si sfogano sui social”.

Se dipendesse da lei, qual è la prima cosa che farebbe per segnare un cambio di passo verso la sostenibilità di una testata?

“Certamente eliminerei la gabbia del giornale quotidiano di carta. Ribalterei l’organizzazione rendendo il giornale davvero digitale. Poi, alla fine della giornata, selezionerei i contenuti più significativi da proporre anche in versione cartacea, ma magari settimanale. Spenderei le risorse nel fare un sito mobile e una applicazione fatti per bene. Cercherei anche di creare dei servizi in più per diventare un vero hub dell’informazione, dove le persone sappiano di trovare contenuti corretti e puntuali. Importantissimo è creare una community e quindi mantenere un dialogo costruttivo con i lettori. Fondamentale è poi fare articoli curati, quindi meno in quantità ma realmente informativi altrimenti si rischia di aumentare la disinformazione e l’odio online. E a partire da questo, ci tengo a precisare che è in utile continuare a copiare gli articoli delle altre testate, anche straniere, basta mettere un link che vi rimandi. Invece i giornali italiani tendono ad essere ‘giornali fotocopia’ in cui si danno sempre le stesse notizie. Inoltre c’è troppo politica italiana e troppo poca economia che riguarda realmente le persone. Infine poi, credo che bisognerebbe dare più notizie positive, per esempio, è importante parlare della crisi climatica, ma mostrando anche le soluzioni e non usando solo toni allarmistici che spaventano ed allontanano il pubblico”.

Lei ha diretto il master di giornalismo di Torino. Ha qualche consiglio per i giovani giornalisti che si affacciano ora al lavoro? E per le scuole di giornalismo? Cosa dovrebbero insegnare?

“Fortunatamente i giornali hanno bisogno di giovani talenti che ricoprano ruoli nuovi, resi necessari dalla rivoluzione digitale. Proprio per questo le scuole di giornalismo dovrebbero aggiornarsi su alcuni aspetti, ma purtroppo sono ingabbiate dall’Ordine dei giornalisti. Si dovrebbe, a mio parere, insegnare anche modelli di business, data journalism, informatica. Inoltre non bisognerebbe mandare i ragazzi a fare gli stage solo nelle testate tradizionali in crisi, ma all’estero perché sapere le lingue oggi è fondamentale per i giovani giornalisti. La buona scrittura non basta più, bisogna insegnare ad essere imprenditori di se stessi”.

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