Inviati di guerra – Cappon: “Le storie dei profughi, da raccontare con rispetto”

La giornalista Laura Cappon
di SARA SPIMPOLO

URBINO – Dopo le bombe, c’è la fuga. La linea diretta che porta dalla guerra ai suoi effetti più immediati si trova seguendo la traiettoria dei profughi. Ed è una linea che, nel caso dell’Ucraina, porta in Polonia. Lì si trova la giornalista Laura Cappon, inviata per Mezz’ora in più, programma di Rai3 condotto da Lucia Annunziata.

Da Przemyśl, città polacca al confine con l’Ucraina che conta 60mila abitanti, Cappon sta raccontando le storie di chi scappa dalla guerra. Una mamma che porta con sé 13 figli, lasciando il maggiore a combattere; un padre che torna dall’Italia per andare a prendere moglie e figlia al confine; il sindaco di Przemyśl che racconta come la sua città si è preparata all’accoglienza.

Laura, come si fa a raccontare cose del genere rimanendo lucida e concentrata sul tuo lavoro?

È un equilibrio difficile. Quando lavoro so quello che devo fare, quello che voglio raccogliere per il mio articolo, ma allo stesso tempo devo cercare di essere cortese, empatica, corretta. Io cerco di non fare sensazionalismi, di essere umana, ma a volte penso: “Siamo veramente degli ‘avvoltoi’”. Perché devi cercare di avere tatto, ma al contempo “portare a casa” quello che ti serve affinché il pezzo funzioni. Nella mia carriera ho dovuto raccontare molte cose spiacevoli: gli scontri di piazza, i prigionieri politici, le torture. Ma come fai a entrare in empatia con una persona che ha subito torture? O che scappa dalla guerra? Tu non sai cosa si prova.

Una volta, per il mio podcast “Inviate in prima linea”, su Rai play sound, ho fatto a Milena Gabanelli la stessa domanda che tu ora hai fatto a me: “Come si raccontano le guerre, i profughi, le rivoluzioni?”. La risposta è stata: “Bisogna raccontare i fatti, senza aggettivi”. Secondo me significa che bisogna essere asciutti, accurati, vicini alla realtà. Senza sensazionalismi, senza espedienti barocchi, senza cadere nella carica emotiva a tutti i costi. Significa restituire quello che stai vedendo quasi come se non lo elaborassi. Portarti dentro a una storia, ma con discrezione.

Ma quando poi si spengono le telecamere, quello che hai visto lo rielabori, o te ne dimentichi?

No, non lo dimentichi. Lo elabori per capire la realtà, di concepire punti di vista che non avresti sperimentato altrimenti. Per questo andiamo nei posti, per questo raccogliamo storie. Perché se vedi una situazione analoga a una che hai già sperimentato, la sai riconoscere. Sai capire cosa sta succedendo, e perché una cosa accade. E questo per il nostro lavoro è molto importante. Noi siamo lì per spiegare alle persone cosa sta succedendo, non siamo lì per farci vedere, per mostrare quanto siamo “fighi” al fronte.

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Ecco, allora spiegaci: cosa sta succedendo al confine tra Ucraina e Polonia?

La situazione peggiora di giorno in giorno. Io mi trovo ora a Przemyśl, il più grande scalo ferroviario al confine tra Ucraina e Polonia. Da qui arrivano i treni sia da Leopoli, la più grande città ucraina dell’ovest, sia da Kyiv. In questi giorni i treni sono aumentati, fino a otto al giorno. E in ogni treno ci sono tra le 1500 e le 2000 persone. I viaggi però sono rallentati, a ogni fermata i treni vengono sottoposti a controlli. Le autorità ucraine tendono infatti a non far uscire i maschi tra i 18 e i 60 anni, perché servono al paese per combattere. A Medyka, il valico terrestre di confine a 10 chilometri da Przemyśl, nei giorni scorsi si registravano fino a 60 chilometri di coda.

Molte famiglie?

Sì, come accade sempre, i primi a partire sono le famiglie con i bambini piccoli e i malati cronici. Anche quelli che hanno patologie che in una situazione normale si curano con facilità, per esempio i diabetici, perché se finisce l’insulina – e in guerra può succedere – si può morire. Molti hanno noleggiato un’auto per scappare, ma davanti alle gigantesche code hanno abbandonato i veicoli e proseguito a piedi. C’era una donna, madre di 13 figli, che arrivava da Lutsk, una cittadina nel nord ovest, al confine con la Bielorussia. La sua famiglia viveva vicino a un aeroporto militare, e sono stati tutti svegliati da un attacco. Quando hanno visto il fumo che saliva fino alle loro finestre, in 15 minuti hanno fatto i bagagli e sono partiti. Sono disperati. Il marito della signora è rimasto a casa, perché sapeva che non sarebbe riuscito a passare; il figlio maggiore ha 24 anni ed è nell’esercito. La sua famiglia ha paura per lui.

Ma ci sono anche persone che fanno il viaggio opposto, verso la Polonia?

Sì, al confine ci sono anche tanti ucraini che vivono in altri paesi, anche in Italia, che sono tornati verso il loro paese d’origine per prendere i familiari rimasti. Un ragazzo ucraino, che vive e lavora a Maranello in un’azienda che si occupa di simulatori d’auto per la Formula 1, ha guidato per 16 ore fino a Medyka per aspettare la moglie e la figlia ancora dall’altra parte del confine. Un altro ragazzo, veneziano, ha guidato per più di 20 ore con la sua compagna ucraina per andare a prendere la figlia di lei.

Nei giorni scorsi, molte fonti hanno parlato di episodi di razzismo al confine: cittadini di origine africana respinti dalla polizia di confine. Una notizia confermata anche dall’Unione africana e dalle Nazioni Unite. Hai assistito a qualcosa del genere?

A Medyka abbiamo incontrato degli studenti ghanesi che studiavano a Leopoli, ma non siamo riusciti a parlarci. Ma dalle notizie in Polonia abbiamo visto che le persone straniere dall’Ucraina hanno fatto effettivamente più fatica a passare il confine.

E i polacchi come stanno vivendo questa situazione?

Per loro significa ripiombare in un incubo, quello di avere la le bombe alle porte di casa. Nel paese c’è una memoria forte di quello che è successo durante la seconda guerra mondiale. Anche per questo la Polonia, a differenza di quello che ha fatto con i cittadini del Medioriente che spingevano al confine bielorusso, stavolta ha deciso di accogliere in maniera incondizionata.

Secondo te perché questo cambiamento?

Il paese è ora l’avamposto dell’Occidente, l’ultimo paese della Nato prima dell’Ucraina. E poi c’è un altro punto. Si usa la narrazione – con la quale abbiamo familiarità anche in Italia – per la quale il rifugiato che scappa da un paese in guerra e si rifugia nel primo paese sicuro va accolto. Una narrazione che tra l’altro corrisponde anche alla definizione internazionale di profugo. E i cittadini mediorientali in Bielorussia, secondo i polacchi, non corrispondevano a questa definizione. Infine, ragione non secondaria, in Polonia hanno paura.

E quindi ora accolgono.

Sì, a Przemyśl hanno aperto il dormitorio di una scuola superiore e stanno raccogliendo vestiti e generi alimentari. È semplicissimo fare domanda per avere un permesso di residenza temporaneo, che permette anche la copertura sanitaria. Gli stessi abitanti hanno aperto le porte delle proprie case per ospitare chi aveva bisogno. Più passa il tempo, però, più i numeri diventano significativi. Il sindaco di Przemyśl ha detto che solo lì – cittadina di passaggio dove i profughi stanno un giorno al massimo per poi essere redistribuiti in altre parti della Polonia – sono stati allestiti 1500 posti letto, e si prevede di allestirne almeno 5000. La Polonia ospitava già da prima della guerra due milioni di cittadini ucraini, la maggior parte arrivati nel 2014 dopo l’annessione russa della Crimea e l’inizio del confitto in Donbass. Ora prevede di accogliere più di un milione di sfollati. L’Unicef ha detto che i profughi ucraini potrebbero arrivare a 5 milioni.  Stiamo parlando della crisi migratoria più grave dal 2015, quando ci fu quella dalla Siria, che sconvolse gli equilibri dell’Europa.

Come sta facendo anche questa…

Questa è peggiore, sta testando letteralmente la tenuta del nostro ordine internazionale. Perché non è un conflitto remoto, ma una guerra alle porte dell’Unione europea.

Hai incontrato difficoltà nel fare il tuo lavoro?

A differenza di ciò che è successo al confine con la Bielorussia qualche mese fa, le autorità polacche non hanno ostacolato i giornalisti. Salvo non permetterci di filmare nei dormitori, in particolare nel centro di accoglienza, per una questione di privacy.

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