Storie che non si possono raccontare. Teatro in carcere porta al Sanzio I sopravvissuti

I cinque protagonisti dello spettacolo con il musicista Francesco Scaramuzzino, il regista Francesco Gigliotti e la drammaturga Romina Mascioli. Foto del teatro Aenigma
di BEATRICE GRECO e SARA SPIMPOLO

URBINO – “Quanto mi dai per questa storia?”. Inizia così lo spettacolo I sopravvissuti, con gli attori che sorprendono il pubblico alle spalle. Alcuni tengono in mano un cd, altri una chiavetta usb: dentro, la loro storia. “Troppo poco” rispondono ad ogni offerta divertita degli spettatori. La loro storia vale di più, sempre di più, perché “se anche parlassimo – dice un attore – non ci ascoltereste. E se ci ascoltaste, non ci capireste”. Sul palco del Teatro Sanzio, a interpretare i racconti ispirati al racconto di Primo Levi, ci sono gli attori della compagnia Lo Spacco, cinque ragazzi che vengono dalla Casa circondariale di Villa Fastiggi a Pesaro. Dal 2002 è attivo nell’istituto il laboratorio permanente “Teatro in carcere”, coordinato da Vito Minoia e Romina Mascioli dell’associazione universitaria Teatro Aenigma.

Una storia che non si racconta

“Non posso raccontare questa storia se non sento la cadenza di quei passi” dice Bib Saka dal palco, mentre Denis Shehaj gira convulsamente in cerchio pestando il ritmo con il piede. Sono prigionieri in balia di loro stessi, non ricordano quanti anni hanno e non riescono a distinguere l’ieri dall’oggi. “Non cadere o ti calpesteranno”, “abbiamo già scavato qui”. Sono alcune delle frasi che gli attori ripetono tra loro, mentre vagano senza una meta come in balia di un pensiero che non riescono ad afferrare. Vorrebbero raccontare cos’hanno visto, cos’hanno vissuto, ma non riescono. Questa è una storia che in realtà non può essere raccontata.

“È proprio Primo Levi che racconta e insieme non racconta – spiega il regista Francesco Gigliotti -. Per i nostri ragazzi questo è qualcosa che ha a che fare anche con il loro vissuto. Tra di loro c’è chi è più sopravvissuto di altri, perché si porta dietro delle ferite”.

L’incomunicabilità del trauma, propria di Primo Levi così come dei ragazzi detenuti, viene risolta da un narratore esterno. È un angelo. Nessuno lo vede, ma entra in scena per raccogliere dai capelli degli attori dei fili immaginari, che sono che le fila delle loro storie. Quegli stessi fili diventano le corde della sua chitarra, quella con cui, attraverso la musica, riesce infine a fare ciò che i sopravvissuti non riescono a fare: raccontare il loro vissuto.

Il teatro: un gioco diventato speranza

“Questo spettacolo rappresenta un po’ anche noi – dice Bib al Ducato – . Non possiamo paragonarci ai prigionieri dei lager, però la difficoltà nel raccontarsi è la stessa”. Bib è il veterano del gruppo, ha iniziato a fare teatro tre anni e mezzo fa. “In carcere non ci sono tante cose da fare – scherza -. Ho iniziato per caso e poi mi sono appassionato”. Nelle sue parole anche un pensiero per la situazione in Ucraina: “Speriamo che quello che raccontiamo qui sul palco non si ripeta più”.

“Non mi aspettavo di fare teatro – ammette Denis, che da un anno e mezzo frequenta il laboratorio – e inizialmente non lo volevo fare. Poi lo spettacolo di Roma dell’anno scorso è stata un’esperienza meravigliosa”. I ragazzi hanno infatti messo in scena la pièce al Teatro Palladio dell’Università di Roma Tre, di fronte ad un vasto pubblico di studenti, “che – racconta Minoia – ha addirittura seguito i nostri attori fin dentro i camerini per complimentarsi con loro”.

Per Said Aboubkar sono stati i compagni a convincerlo a provare, mentre per Aatiff El Houssaine tutto è partito come un gioco, “ma poi è diventata una cosa bellissima”. “Per me è stato d’aiuto – afferma emozionato – e spero che sia utile per il mio futuro”. Tutti i ragazzi, infatti, sono sicuri che sarebbero contenti di continuare a fare teatro anche una volta usciti dal carcere. Solo Alban Ramadani è incerto: “L’ansia prima di salire sul palco è troppa”.

L’angelo silenzioso che permette ai protagonisti di ritrovarsi, abbandonare i propri fardelli e unirsi in un gesto di solidarietà collettiva è Francesco Scaramuzzino, giovane musicista urbinate: “La mia collaborazione con i ragazzi è iniziata quando sono andato in carcere a fare un paio di concerti per loro – spiega al Ducato – e da subito mi sono sembrati simpaticissimi”.

Un’unica strada

Al termine della rappresentazione viene aperta una sessione di dibattito in cui il pubblico interviene per fare domande ad attori e regista. “È una cosa che non avevamo mai fatto”, dice Minoia, “e siamo stati contenti della risposta dell’auditorio”. In sala, tanti studenti che, poche ore prima, avevano seguito un seminario sul dialogo tra pedagogia e teatro.

Ma la collaborazione con l’università non si ferma alla teoria. Fino al 3 maggio è infatti aperto un bando per cinque giovani interessati a partecipare al “terzo studio” de I sopravvissuti, in un progetto del teatro universitario Aenigma di Urbino che si concluderà con una performance collegata allo spettacolo.

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