“Così risolleveremo le colonne del tempio di Selinunte”. Oscar Mei, archeologo Uniurb, racconta

Il render delle colonne del Tempio G. A destra l'archeologo Oscar Mei, con alle spalle il tempio
di BEATRICE GRECO

URBINO – Li conosce uno per uno i resti di quello che era il Tempio G, uno degli edifici sacri più grandi della Sicilia che 2.600 anni fa si ergeva a Selinunte. Li ha toccati tutti con le sue mani nel 2010, quando sono iniziati i rilievi, e poi con gomma e matita ha ridato forma a quei reperti, ridisegnando su carta quella struttura imponente. Adesso sta lavorando perché tre colonne di quell’enorme tempio tornino a svettare nel parco archeologico siciliano. Oscar Mei, docente di archeologia classica dell’Università degli studi di Urbino, fa parte del team di esperti che segue il progetto. Insieme a lui, oltre alla sua equipe, anche lo scrittore e archeologo Valerio Massimo Manfredi e Claudio Parisi Presicce, da poco sovrintendente ai beni culturali per il Comune di Roma. “Spero davvero che il risollevamento delle colonne si possa concretamente realizzare. Sarebbe un evento storico” ammette emozionato Mei.

L’enigma del tempio “non rifinito”

Esteso come un campo da calcio, con i suoi 109 metri di lunghezza e 50 di larghezza, il Tempio G è il più grande tempio periptero, ossia circondato da colonne, della Sicilia e uno dei più grandi di tutta l’antichità. È stato costruito con una pietra calcarea proveniente dalle Cave di Cusa, distanti appena 12 chilometri dall’antica Selinunte.

Vista dall’alto del Tempio G

“Nelle cave sono stati trovati altri resti di colonne e di capitelli appartenenti al Tempio G – spiega il docente dell’UniUrb – . Secondo alcune ipotesi, che condivido, quei pezzi sono stati abbandonati lì perché rotti durante la lavorazione. Altri invece sostengono che il motivo dell’abbandono sia collegato con l’arrivo in città dei Cartaginesi nel 409 a.C.”.

Secondo quest’ultima ipotesi, il Tempio G non è mai stato finito: a riprova di ciò, si cita la mancanza di dettagli e di decorazioni degli elementi architettonici. “Le colonne non hanno le scanalature, che di solito si facevano alla fine – sottolinea Mei – e anche i blocchi alla base del tempio non sono stati scalpellati, cioè non sono lisci”. Per l’archeologo urbinate la motivazione non è da ricercarsi nell’invasione cartaginese, ma piuttosto nella mancanza di risorse economiche. “All’interno del tempio sono state trovate tegole, ceramiche, frammenti di statue e anche iscrizioni. Segno che il tempio era in uso” afferma. Con fierezza mista ad emozione, rivela la teoria da lui sostenuta: “Si tratta di un tempio ‘non rifinito’. Questa definizione viene dal professor Mario Luni, che è stato il mio maestro. Con lui ho iniziato i lavori nel 2010″.

La pianta del Tempio G, fatta a mano, con individuati tutti gli elementi di ogni singola colonna

Rilievi portati avanti per un anno e mezzo. Fatti a mano, conoscendo e studiando pezzo dopo pezzo tutti i reperti del parco archeologico. “Il 70% dei blocchi è stata identificato – dice Mei – . Il restante 30% è in parte ancora sotterrato dagli altri resti e in parte è stato utilizzato nelle masserie vicine”. Una percentuale così alta, quella dei blocchi conosciuti, che fa quasi sperare all’archeologo urbinate di poter rimettere in piedi una buona parte dell’edificio: “Le tre colonne sono la prova iniziale. Se dovesse funzionare, si potrebbero in teoria risollevare molte altre colonne e anche il muro della cella. Ma – ammette – prima bisognerebbe riscoprire la base, coperta da circa 7 metri di materiale”.

Risollevare le colonne per salvarle

Prima che le tre colonne tornino a stagliarsi in tutta la loro magnificenza, sono necessarie però alcune analisi. “Gli studi sulla pianta e sugli elementi archeologici – spiega Mei – sono già stati fatti. Ora bisogna procedere alle indagini statiche sulle fondazioni e sul terreno”. In pratica bisognerà quindi capire se le colonne, vista la loro imponenza, riusciranno a stare in piedi e se il suolo – dopo i terremoti e le modificazioni occorsi negli anni – riuscirà a sopportare il loro peso. Sono strutture alte 16 metri e con un diametro di 3,30 metri: “Per farsi un’idea della loro grandezza, bisogna pensare che in cima hanno un capitello dorico di quasi 16 metri quadrati” spiega Mei.

Modellino in legno del Tempio G, creato da Mario Luni, Gastone Buttarini e Graziella Barozzi. Foto di Giuseppe Dromedari

Dopo le indagini statiche, sarà la volta delle analisi sismiche e strutturali. “Si faranno degli studi sulla tenuta della pietra” illustra il docente dell’UniUrb, che avverte: “Gli elementi architettonici sono fatti per stare in piedi. A terra invece si stanno sbriciolando, perché con il tempo la pietra va incontro a fessurazioni”. Ricomporre le colonne e riposizionarle in verticale significa, di fatto, proteggerle. “Il nostro progetto è innanzitutto un’operazione di conservazione e tutela – ammette Mei – . Poi indubbiamente c’è un risvolto scientifico e anche divulgativo: dobbiamo pensare anche a chi non è un archeologo. Ridare forma a quello che per molti è un cumulo di macerie avrà sicuramente un forte impatto”.

Ma i tempi di realizzazione non sono immediati: “Il risollevamento delle colonne è solo la parte finale. Avverrà almeno tra un anno. Prima si dovrà fare anche una prospezione geofisica, cioè una ricerca con il georadar per cercare l’altare e per capire cosa c’è intorno al tempio” afferma l’archeologo.

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