Marco Frittella (Rai): “Social come oppio, la carta è morta. Il modello è il Foglio”

URBINO – Dal 1979 in televisione, prima come autore di programmi e poi come conduttore di programmi di ambiente, Marco Frittella dal 1982 si occupa di politica, prima come capo ufficio stampa parlamentare e poi in Rai, prima al Gr2 e poi al Tg1, dove molti lo ricordano a condurre l’edizione delle 20. Esperto quirinalista, la sua voce ha accompagnato gli italiani in molti insediamenti di governi ed elezioni del presidente della Repubblica. Nel marzo 2022  è stato nominato direttore editoriale di Rai Libri. Ha risposto alle domande poste dal Ducato sull’importanza dell’informazione culturale di servizio.

Ha senso parlare di cultura nell’informazione di servizio quando cronaca e cultura sono percepiti agli  antipodi?

Dino Buzzati, quando era un giornalista, fu inviato dal Corriere della sera a coprire un incidente stradale dove erano morti tanti bambini. Quello è a tutti gli effetti un pezzo di letteratura, da far piangere. I confini tra cultura e cronaca quindi sono labili.

Ma è ancora l’era dei Buzzati?

No, non è più il tempo loro, il sistema editoriale non gradisce questo, perché non ti dà il tempo di scrivere in un certo modo, per questo tipo di informazione si richiede tempo e va contro la logica imprenditoriale. Si vive velocemente, si richiede l’immediatezza della notizia, e va bene, ma la qualità cede il passo ad altro, come appunto arrivare prima degli altri.

Come si sceglie allora tra la qualità e la velocità?

Sono elementi che vanno coniugati. Come servizio pubblico bisogna dare un contributo alla società italiana e internazionale, ma lo devi fare con un tuo stile, con punti di vista e spunti più vasti e pluralistici. Devi offrire una vasta gamma di idee. Ci sono dei libri sull’identità degli italiani, sui diritti delle donne in Afghanistan e sui diritti umani in Paesi retti da satrapie religiose. Il punto è che l’informazione di qualità deve entrare nel dibattito pubblico.

Qual è allora la funzione di Rai Libri?

Noi casa editrice del servizio pubblico, qui abbiamo un dovere in più perché siamo pagati coi soldi di tutti. Il servizio pubblico ha una funzione pubblica e nazionale, deve essere una garanzia per tutti. Nel caso della casa editrice, questo vuol dire cercare di non privilegiare le ragioni commerciali, noi non siamo un’azienda, ci basta non andare in perdita. Per esempio, al salone di Torino abbiamo ospitato un dibattito su Arnoldo Mondadori e ho notato una cosa. L’anno in cui escono gli Oscar Mondadori con Addio alle armi di Hemingway, si apre una grande opera di educazione popolare. Nello stesso anno la Rai produce i primi sceneggiati, di Tolstoij. La funzione culturale c’è sempre stata, ma per me anche gli Oscar Mondadori sono un servizio pubblico, non devi per forza lavorare nello Stato.

Ma come può l’informazione editoriale avere un risvolto pubblico se ci si informa sui social?

Servono più servizi in periferia, sono le aree dove interviene di più la forza dei social, che spesso porta disinformazione o intrattenimento a livello davvero subculturale. Si è visto che si tratta di oppio, da questo punto di vista i social sono come un oppiaceo, servono a distribuire senza dolore usi e consumi. Negli anni 70 le periferie erano in condizioni disagiate ma vivificate da una serie di agenti educativi come le parrocchie, le sezioni di partito. Non a caso nelle periferie industriali si parla di aristocrazia operaia per il ruolo anche culturale che questa fascia sociale era riuscita a ritagliarsi. Naturalmente i social sono il futuro e si deve usarli, potrebbero essere un mezzo ma vedo che sono solo una distribuzione di modelli di consumo e commerciale.

Quindi abbandonare i social?

Al contrario, penso che il futuro dell’informazione sia segnato: bisogna abbandonare il vecchio. La sfida è questa, usare i social per fare cultura. Pensa, nelle periferie non ci sono neanche più i negozi, l’unica cosa che arriva è il telefono e la linea internet. E questi devono essere gli strumenti equilibratori, noi ci stiamo lavorando con strumenti forti competitivi come RaiPlay.

E la carta?

La carta, cui sono molto affezionato, è vecchia e morta. Chiaramente esagero, non morirà, ma il modello è Il Foglio: un piccolo giornale di èlite che si rivolge a una èlite colta e basta. Ma i giochi sono chiusi. Posto che tu trovi un’edicola, ti rendi conto che il giornale è residuale rispetto al biglietto del bus o ai fumetti. I giornali dovrebbero investire nel digitale e nel cyberspazio, con il vantaggio dell’autorevolezza professionale di cui gode una testata.

E c’è spazio per l’informazione culturale nel futuro?

Secondo me sì, si torna alla cultura perché ci si rende conto che questa montagna di panna del transitorio fa paura. Allora c’è bisogno di un riferimento alto, che infonda sicurezza, che però non è imitabile e che anzi diventa irraggiungibile per la scarsa preparazione scolastica delle persone. La nostalgia di un riferimento alto è diffusa e, forse, facendo leva su questa nostalgia si può riportare la gente alla cultura.

About the Author

Enrico Mascilli Migliorini
Irpino innamorato del mare parlo solo e volentieri di musica. Nasco nel 1994 e mi laureo in Storia con una tesi sulla censura e il primo catalogo dei libri proibiti nella triennale a Firenze. Nella tesi di laurea magistrale a Bologna studio il popolo rom, detto zingaro, diventato parte integrante della mia vita soprattutto grazie al progetto CNR-UE Municipality 4 Roma.

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