In valigia Lonely Planet e la letteratura di quei luoghi. Trevi: “Dall’esperienza all’immaginazione: questo è il viaggio” – VIDEO

Lo scrittore Emanuele Trevi
di GIULIA CIANCAGLINI

FANO – Perché le persone quando viaggiano portano nello zaino sia una Lonely Planet che un libro d’autore ambientato nel luogo dove sono diretti? Se lo è chiesto anche lo scrittore Emanuele Trevi nella giornata fanese del Festival del Giornalismo Culturale. “Io ho viaggiato molto e mi piace osservare cosa la gente sceglie di avere con sé, spesso hanno una guida turistica, ma non dimenticano di portarsi anche un libro di uno scrittore del posto e che narra di quei luoghi. Mi sono sempre chiesto il motivo”, racconta.

La risposta, secondo lui, risiede nella diversa utilità dei due oggetti: se il primo serve a scegliere il ristorante dove mangiarsi un boccone, il secondo aiuta a entrare in sintonia con i luoghi descritti tra le pagine sfogliate. “Mi sono sempre chiesto se fosse possibile unire le due cose. Ora mi sembra impossibile. Quando ero giovane sognavo di scrivere volumi che condensassero le funzioni di una guida e l’essenza di un romanzo. Ma ora penso che questo ibrido non mi piace, somiglierebbe troppo a una versione elegante della guida”, ammette alla platea del Teatro della Fortuna di Fano.


Nel ripercorrere la storia della letteratura di viaggio, Trevi preferisce “non chiamare in causa l’Iliade o l’Odissea”. La sua data di riferimento è, piuttosto, il 1977. L’anno in cui esce In Patagonia di Bruce Chatwin. “Lui ebbe una grande intuizione. Sapeva perfettamente che la Patagonia era già stata descritta prima di lui e si domandò cosa potesse offrire in più al lettore. Capì che bisognava lavorare sull’io. E iniziò a scrivere un libro in prima persona, ponendo il viaggio come una sfida esistenziale attraverso cui realizzare un sogno d’infanzia”, spiega lo scrittore.

Nella prima pagina del libro Chatwin non descrive quel frammento di Sudamerica al centro del suo romanzo, ma una scena in un salotto inglese, dove “il bambino che fu” vede un resto di un dinosauro che – come gli racconta la zia – ha vissuto in Patagonia. “In quel momento Bruce giura a se stesso che un giorno avrebbe camminato nelle terre della Patagonia e che avrebbe trasformato questo nome in un luogo del mondo da abitare”.

Secondo Trevi, per raccontare un viaggio in modo efficace l’autore deve scegliere di farlo in prima persona perché così il lettore non lo astrae ma lo immagina inserito nella storia di un’anima. “Il viaggio corrisponde al ponte tra l’esperienza dello scrittore e l’immaginazione del lettore”, afferma.

Secondo lo scrittore, tuttavia, in un romanzo sia l’esperienza che l’immaginazione sono obbligate a sfruttare un mezzo che, a differenza di quello fotografico, non rende conto dell’infinita varietà di quanto vediamo. “Con la fotografia posso riprodurre un cielo come non lo sarà mai più, posso immortalare il mondo che corrisponde a una serie di fenomeni transitori e irreversibili. La lingua funziona al contrario: deve astrarre – racconta Trevi – Un termine come ‘porto’, per esempio, riunisce tutti i porti diversi. Le parole hanno un’indeterminatezza rispetto al luogo, un’imprecisione che garantisce però la loro funzione”. E proprio per questa astrazione della lingua, descrivere un viaggio o dei luoghi attraverso le parole è più difficile di quanto si immagini.

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