Urbino, il climatologo Frank Raes in cattedra alla ‘Carlo Bo’: “È l’uomo il cataclisma del nostro tempo”

Il climatologo Frank Raes
di FRANCESCO COFANO e NICOLETTA PETTINARI

URBINO – Un grande orologio che rappresenta la storia della Terra, siamo a metà strada, attorno alle 6, in cui l’uomo è un attore secondario comparso “solo” 200.000 anni fa, lo spazio di pochissimi minuti. È questa la prima immagine che Frank Raes, climatologo di fama mondiale, ha proiettato ieri nell’Aula Magna di Palazzo Battiferri in occasione del ventottesimo Congresso nazionale della divisione di chimica dell’ambiente e dei beni culturali. Oggi le lancette sono ferme alla metà del quadrante, ma l’uomo rischia di non arrivare alla fine del giro.

“Cemento armato e plastica i futuri fossili dell’uomo”

Le responsabilità sono dell’uomo stesso, “il cataclisma naturale che ha il potere di distruggere il pianeta”, ha affermato Raes durante la sua conferenza dal titolo “L’uomo cambia il clima, il clima cambia l’uomo”. Dall’avvento della Rivoluzione industriale, circa 200 anni fa, tutto cambia sempre più velocemente e il tempo per correre ai ripari è sempre di meno. “Ognuno di noi, da oggi fino alla fine delle nostre vite, dovrebbe emettere al massimo cento tonnellate di CO2 nette. Ogni anno, però, un individuo ne produce in media 15. Un’impronta carbonica che ci lascia solo sei anni di tempo, prima che la situazione diventi irreparabile”, ha detto il climatologo.

L’anidride carbonica, infatti, è il principale tra i gas serra, quelle sostanze alla base del riscaldamento globale che provoca fenomeni naturali sempre più violenti e improvvisi. L’emissione di gas inquinanti è cresciuta in maniera esponenziale negli ultimi duecento anni, il cosiddetto Antropocene, l’era geologica in cui l’uomo è diventato il principale fattore che modifica la superficie terrestre e l’atmosfera. A questo ritmo, le lancette della storia della terra continueranno a scorrere senza l’uomo, che lascerà come suoi fossili solo il cemento armato e la plastica.

Il rapporto tra economia e clima in chiave europea e italiana

Per invertire la tendenza occorre una svolta culturale, già a partire dai piccoli gesti quotidiani. Ad esempio, utilizzare i mezzi pubblici invece delle auto, modificare le proprie abitudini alimentari e diminuire lo spreco domestico di acqua. In questo senso, l’Unione Europea negli ultimi anni “è stata in grado di scollegare la propria crescita economica dalle emissioni di gas serra”, ha ricordato Raes. Dal 1990 al 2016, infatti, il Pil continentale è cresciuto del 53%, mentre le emissioni sono diminuite di 24 punti percentuali. L’Italia ha seguito il trend, anche se con una forbice più ristretta: la ricchezza del Paese è aumentata del 21% e l’inquinamento da CO2 si è ridotto del 18%. Ma c’è ancora molta strada da fare, considerando che il settore automobilistico e quello dei climatizzatori sono poco ecosostenibili.

“I valori su cui si fonda gran parte della vita moderna sono libertà, autonomia e comodità. L’automobile li incorpora perfettamente e per questo è così difficile per le persone rinunciarvi”, ha continuato lo scienziato, che ha poi evidenziato come la modernità sia solo un’illusione, costruita su dualismi quali natura-uomo, materia-idea e pratica-teoria. Fondamentale, per il climatologo, è recuperare quel senso di meraviglia e di dubbio, rispetto alle cose, tipico del Cinquecento, quando, tra scoperte di nuovi territori e fermenti ideologici e politici, il bolognese Ulisse Aldovrandi diede vita alle Stanze delle Meraviglie, “un microcosmo di macrocosmi”, lo ha definito Raes. Sulla scia di questo modello, lui stesso ha fondato il Museo della Tecnologia dell’Antropocene, una raccolta di oggetti, provenienti da tutto il mondo, che testimoniano come l’uomo moderno stia vivendo una nuova era geologica – chiamata appunto Antropocene – dominata da plastica, cemento e radioattività.

La comunicazione scientifica oggi

Prima della conferenza di Raes c’è stata la tavola rotonda “Comunicare le sfide: ambiente e beni culturali”, moderata da Tiziano Mancini dell’Università “Carlo Bo” di Urbino e a cui hanno partecipato anche Francesca Izzo, dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, e Marco Pivato, collaboratore scientifico de La Stampa e membro dell’agenzia Dna media lab. Il dibattito ha evidenziato l’importanza di strategie comunicative efficaci tra la comunità scientifica e quella dei beni culturali. Due gli approcci per la divulgazione della scienza: il modello “deficit”, in cui è lo scienziato che spiega al pubblico, e quello “fear” basato sull’utilizzo di immagini raccapriccianti per comunicare contenuti scientifici, come le foto sui pacchetti di sigarette o la campagna pro vaccini con la campionessa paralimpica Bebe Vio.

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