di SARA SPIMPOLO
URBINO – “Ma tu che sol per cancellare scrivi”. Così Dante Alighieri parlava di Giovanni XXII nella sua Commedia, raccontando il papa che scriveva scomuniche per poi cancellarle a pagamento. E proprio la cancellazione è stata al centro della lectio magistralis di Emilio Isgró, dal titolo ‘Cancellare non uccidere’, che ha chiuso la nona edizione del Festival del giornalismo culturale. Partendo dal tema della cultura da rinnovare, Isgrò ha esposto la chiave attraverso cui – secondo lui – andrebbe operato questo cambiamento: non uccidendo il passato, ma scrivendo un nuovo presente. Quasi un paradosso, per l’artista e intellettuale che ha fatto della tecnica della cancellatura la sua cifra stilistica. Ma la contraddizione è presto spiegata dallo stesso Isgrò: “La cancellatura per me non è un gesto distruttivo – dice – Il punto è scrivere prima di cancellare, cosa che oggi a mio parere non avviene”.
Lo spettro della cancel culture
La soluzione per Isgrò non sta nel cancellare il passato. La cosiddetta cancel culture, che in Italia in realtà non è mai davvero arrivata, viene evocata come uno spettro dall’intellettuale. “Perché la cancel culture ci inquieta? Perché se cancelliamo la cultura a blocchi dobbiamo mandare a morte Socrate, cancellare la civiltà ateniese – sostiene lo studioso – E una società che rischia di mandare a morte Socrate, manda a morte lo stesso pensiero umano. La civiltà europea è invece fondata sullo scambio di opinioni: nessuno può essere cancellato per ciò che pensa”. Una nuova cultura quindi – intesa in un senso che abbraccia ogni campo del vivere – che raggiunga nuove altezze senza dimenticare le basi del pensiero occidentale, e non cancelli quelle voci che pure potrebbero apparire in contrasto con la sensibilità odierna.
Una nuova cultura per una nuova politica
Se non cancellando, come arrivare allora a questa nuova cultura? Con l’insegnamento. “Senza una nuova cultura non può esserci nuova politica, e la nuova cultura non può essere quella dei social: bisogna tornare a studiare” dice Isgrò. “Non avremo una nuova politica finché non avremo la coscienza che la cultura è inadeguata, che l’arte è inadeguata. Non può cambiare la politica se non cambiano le scuole, se possono studiare solo le persone privilegiate”.
La necessità richiamata dallo scrittore è quella di alzare il livello della cultura, non nel senso di avere un mondo di geni (“che dopo un po’ stancano”) ma di avere delle “punte culturali” a cui fare riferimento, perché “un prodotto medio porta alla mediocrità”, e “se la vita diventa noiosa, il mondo crolla”.
Prima scrivere, poi cancellare
Il punto è trovare il modo di avvicinare il ceto medio alla cultura. “Se si sente escluso, si incarognisce e non va verso il progresso”. Qual è il ruolo dell’intellettuale in questo contesto? Se nel secolo scorso Elio Vittorini, conterraneo di Isgrò, scriveva che “l’intellettuale non può suonare il piffero della rivoluzione” per l’artista messinese oggi andrebbe ricordato che non può suonare nemmeno quello del mercato.
E allora Isgrò, sicuramente non un amante della formalità intellettuale, chiude il suo intervento in modo tanto netto quanto quello in cui lo aveva aperto. Se aveva iniziato dicendo “Cancelliamo subito questa lectio magistralis”, chiude citando quel papa che sì, cancellava, ma prima scriveva.
Se per Dante questo era sinonimo di ipocrisia (“Ma tu che sol per cancellare scrivi”), per Isgrò è invece una soluzione alla quale tendere: nessuno si azzardi a cancellare la cultura, se prima non si è impegnato a scriverla. “Questa è la mia opinione – conclude – E non ho altro da dire”.