di ENRICO MASCILLI MIGLIORINI
URBINO – Nel parlamento il partito Forza Minchia insulta a suon di “pezzi di merda” l’opposizione, che risponde cantando “onestà!”. Scendono dai seggi per occupare la sala quando il presidente gli urla che è la sentinella della democrazia e che farebbero bene a tornare al loro posto, tanto la legge delega 61 sul falso in bilancio passerà. È il racconto portato in scena sul palco del teatro Sanzio di Urbino al termine della seconda giornata del Festival del Giornalismo culturale, ma si scopre che è uno scenario possibile.
Nello spettacolo curato da Paolo di Paolo il presidente del Festival Piero Dorfles con gli attori Simone Francia e Diana Manea hanno lanciato un nuovo prodotto sul mercato culturale: Il vocabolario politichese italiano (ed. 1946-2021).
Sulla scena i simboli del quarto potere nel suo evolversi. Gli immancabili giornali, una radio degli anni ‘50, un registratore e una telecamera con cavalletto in legno. Cose datate, di un altro secolo, che il curatore Paolo di Paolo ha messo lì con un senso. “Cambiano i media ma la politica di oggi parla ancora la lingua del dopoguerra”, dice al Ducato.
Supporti diversi, stesso messaggio
“Il mondo è diviso tra inseriti e protestatari. Oggi comandano i primi, però propongono di ammirare i contestatori”, legge Dorfles da “La lingua per iniziati per i giornalisti politici della prima repubblica”, un articolo di Enzo Forcella del 1958. Una banalità, forse, ma “vale anche oggi”. Come pure che il giornalista politico scrive solamente per 1.500 persone, al massimo. Diceva Forcella: “il rapporto del giornalista coi suoi lettori è stretto e giunge fino all’identificazione”.
#PaoloDiPaolo “Questo spettacolo nasce mettendo insieme testi giornalistici di epoche diverse e vuole rispondere alla domanda: negli anni come è cambiato il racconto della politica e come è cambiata la politica stessa?” #fgcult21 pic.twitter.com/y7dYd3KKV0
— Festival del giornalismo culturale 📚 (@fgcult) October 9, 2021
Chi può dire di non aver ripetuto in una conversazione le stesse parole che aveva letto nell’articolo del suo opinionista preferito? Addirittura a volte si fa colazione insieme a lui ci si dialoga come se fosse un amico. “Il giornalista politico è un familiare del cittadino comune e dei 1500 prelati, politici e industriali per cui scrive in un linguaggio quasi in codice. Tutti lo sanno che è ammanicato con quel politico, ma invece di danneggiarlo questo gli facilita la carriera”, commenta Dorfles. Poi il buio, cambio scena. Entrano Francia e Manea e prendono lo stesso giornale.
L’articolo è “Il partito dei sindaci”, ovvero la rivincita dei nerd. Beppe Sala, Matteo Lepore e Gaetano Manfredi: gli esperti. Nessuno scandalo alle spalle, nessuna imitazione di Crozza e una serie di successi nei rispettivi campi di lavoro. Tutti accomunati dal fatto che sorridono, non come i leader carismatici, che ridono.
Parte così una carrellata di pezzi di cronaca politica intervallati da video. Pezzi di storia che raccontano il rapporto tra l’opinione pubblica e i giornalisti nel paese ultimo in Europa per libertà di stampa secondo lo studio di Reporter senza frontiere (Rsf).
Da “Moro! Moro” a “Onestà! Onestà!”: il museo della politica
Si parte col turpiloquio dell’ex premier Giuliano Amato e l’uso della parola “minchia”, quindi al “Forza Minchia”, invece di Forza Italia, proposto da Antonio Martino a Silvio Berlusconi. Gli attori si fermano, parte un video. Salto temporale e ci troviamo nel 2013. Giorgio Napolitano sta per essere rielettopresidente della Repubblica, mentre in parlamento ci si azzuffa a tempo di “Onestà! Onestà!”. Di nuovo il buio. Si sente un “pezzo di merda”, urlato nell’emiciclo.
Prosegue la camminata nel museo della storia del giornalismo politico italiano. Lì c’è Giampaolo Pansa che non si lascia scappare il sudore di Amintore Fanfani, mentre la Dc riunita a Napoli grida “Moro! Moro!”. Qui Eugenio Scalfari nota le corna dietro la schiena di Giovanni Leone mentre con l’altra mano stringe la mano di un coleroso a Napoli.
Un giovane Umberto Bossi dice che i soldi di Fininvest vengono dalla mafia, poi aggiunge “Berlusconi non è un mio amico, è una persona simpatica. Questo perché tutto quello che dice non è vero”. In quella teca ci sono gli scalpi di Indro Montanelli. Spiccano Giulio Andreotti, Bettino Craxi e ancora il Cavaliere. Più avanti il giornalismo di sinistra e le sue analisi.
Giorgio Bocca e il commento su Sandro Pertini “piccolo borghese per estrazione, alto borghese per cultura e proletario per scelta di vita. L’Italia intera in un uomo solo”. Enzo Biagi invece nota che fu l’estrazione nobile di Enrico Berlinguer, “il più rimpianto dei politici italiani”, a farlo un rivoluzionario per natura. “Il padre era un antifascista, il nonno un garibaldino”.
Attenti al logoramento
Oriana Fallaci diceva che Ugo Lamalfa somigliava a una locusta: elegante e immobile. La sua noia fece morire il Partito d’Azione, si diceva. Oggi si dice che la vita da politico di professione sta uccidendo il Movimento 5 Stelle. Montanelli diceva che c’era solo una cosa che Berlusconi non aveva compreso della televisione. Invecchia e la gente si annoia subito. In un dialogo immaginario con un defunto Andreotti, gli fa dire una frase che è un ammonimento anche nei tempi veloci dei social. “La prima Repubblica è forse caduta anche per gli scandali e la corruzione, ma soprattutto perché la gente si era stancata di vedere sempre le stesse facce”.