Fgcult, Simone Pieranni (China files): “Per raccontare Altri Orienti abbandoniamo i pregiudizi”

di Maria Selene Clemente

URBINO – “Mischiarsi” e “abbandonare preconcetti e pregiudizi”: è la ricetta di Simone Pieranni per raccontare storie di mondi lontani. Pieranni è un giornalista italiano, fondatore dell’agenzia editoriale China files a Pechino e autore di diversi podcast prodotti da Chora Media. Pieranni sarà tra gli ospiti del Festival del giornalismo culturale di Urbino che quest’anno ha come tema la lettura e il giornalismo nel mondo degli schermi.

Il suo podcast Fuori Da Qui si rivolge a chi è “stanco del sovranismo delle notizie”. Può spiegare che cosa intende con questa definizione e come si propone di andare oltre?
Intendo che se apriamo un giornale o ascoltiamo un talk si parla sempre o quasi sempre di polemiche legate alla politica e quasi sempre in un modo polarizzante. In Fuori Da Qui proponiamo delle storie laterali su temi di cui si discute nel resto del mondo, temi che ci riguardano in qualche modo e sui quali ritengo sia utile avere uno sguardo meno ombelicale (anche solo per capire che certi temi di cui discutiamo non sono solo “nostrani”).

In un altro suo podcast, Altri Orienti, fa riferimento a una tendenza “a parlare (di Asia) sulla base di immagini stereotipate, superficiali e che non rappresentano la realtà”.  A che punto è lungo questa china il giornalismo italiano? Ritiene che questa distorsione sia specialmente applicata al contesto asiatico o la riscontra anche nel modo di raccontare altri Paesi?
Purtroppo l’aumento delle informazioni sull’Asia, principalmente sulla Cina e solo di recente un po’ di più sull’India, non ha comportato dal mio punto di vista un aumento della qualità. Anzi, si tende sempre all’orientalismo, cioè a raccontare come noi ci immaginiamo quei mondi. Ma basta vedere quante interviste a cinesi o indiani o a specialisti ci siano sui nostri media. E più in generale: non esiste nessun talk di prima serata sugli Esteri, ad esempio. E sono sempre le stesse persone che parlano di tutti gli argomenti possibili, passando da Covid a Meloni, dalla guerra alla crisi ambientale, sempre gli stessi. Invece ci sarebbero mondi interi da scoprire e da raccontare e persone in grado di farlo.

Per molti anni ha vissuto e lavorato in Cina, dove nel 2008 ha fondato l’agenzia China Files con l’obiettivo di raccontare la Cina e l’Asia dal punto di vista cinese e asiatico. Come si sforza di garantire l’autenticità del punto di vista di quel che racconta?
Facendo parlare le persone che abitano in quei posti, facendo parlare le loro storie e soprattutto cercando di dare conto della loro idea di mondo, di loro stessi, delle loro culture, della loro politica. Solo così si può evitare di proiettare la nostra idea su posti così lontani: serve un po’ mischiarsi e abbandonare molti preconcetti e pregiudizi.

Il suo incontro al Festival del giornalismo culturale sarà domenica 8 ottobre, ore 15, a Palazzo Ducale; il tema sarà “come si legge e forma un giornalista”. Che ruolo hanno i podcast nel mondo dell’informazione di oggi e, più nello specifico, nel percorso di formazione e aggiornamento di un giornalista?
Credo siamo ancora all’inizio, specialmente per i podcast giornalistici. Per me sono già un alimento importante nella mia dieta informativa e lo erano anche prima che passassi a Chora. In generale per chi fa giornalismo credo sia un mondo da esplorare, perché consente di fare esplodere alcune caratteristiche del racconto e di informare in modo diretto e informale. Il podcast, alla fine, è intimo e credo sia importante capire almeno che linguaggi possono essere utilizzati.

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