Urbino, ditte cinesi “apri e chiudi” a processo per evasione, due imputati riconosciuti dai testimoni

Tribunale di Urbino
di CHIARA RICCIOLINI

URBINO – Sono “Stefano” ed “Ester” quelli nelle foto, non hanno dubbi i testimoni del processo per frode fiscale contro alcune ditte cinesi di confezionamento tessile che operavano tra Cagli e Urbania. Li conoscevano con nomi italiani, ma i volti riconosciuti in udienza ieri 27 febbraio, appartengono in realtà a Hu Shoucai e Hu Felyan, gli imputati, i due principali interlocutori con i clienti.

Il meccanismo “apri e chiudi”

Per diversi anni, dal 2015 al 2017, queste aziende aprivano e chiudevano continuamente, accumulando debiti fiscali e svuotando le risorse della società, secondo la ricostruzione dell’accusa. Questo piano mirava a rendere praticamente impossibile il recupero delle imposte.

Un sistema affrontato in una serie di processi che riguardano le cosiddette frodi del “meccanismo di apri e chiudi”, così le ha definite la Pm Enrica Pederzoli. L’accusa ha contestato diverse violazioni del testo unico in materia di reati tributari, inclusi l’omesso versamento delle imposte, la mancata denuncia e l’evasione fiscale totale.

I tre testimoni sono stati sentiti dell’aula Paolo Cigliola del tribunale di Urbino dalla Pm e dalla giudice Benedetta Scarcella. Luciano Saraga, rappresentante legale della Marilù, ditta di abbigliamento, ha dichiarato di avere avuto rapporti lavorativi e commerciali con due fratelli cinesi provenienti da ditte per le applicazioni tessili: “Loro venivano nel mio laboratorio, commissionavo il capo e loro lo facevano” afferma. Ha sempre interloquito con un uomo e una donna, forse due fratelli, Stefano ed Ester appunto. Parlavano bene italiano e aveva i loro numeri di cellulare. Inizialmente non ricorda esattamente dove fossero le ditte, poi dice: “Prima erano a Ponte di Ferro, nel comune di Cagli, dopo si sono trasferiti e sono venuti in Urbania, a San Giorgio, le persone erano sempre quelle però” ha dichiarato Saraga. Prima Cagli, poi Urbania. Stesse aziende, stessi dipendenti, stesse facce.

Marino Riminucci, rappresentante legale della Style up, non ricorda con chi interagiva nei rapporti con le ditte cinesi, avevano nomi italiani e si facevano capire abbastanza bene in italiano. Maria Cardinale, ex impiegata amministrativa alla Moda Italia srl fino al 2020, conferma di aver avuto a che fare con ditte cinesi per la confezione di jeans: “Venivano da me per le fatture e i pagamenti – dice – loro confezionavano jeans per noi, io parlavo con Stefano per fare le fatture”. Pur non ricordando i nomi, conferma quelli menzionati dalla Pm: “Anna, Leo, Stefano ed Ester. Stefano era quello che si occupava delle contabilità”.

Un sistema familiare

All’interno operava un meccanismo di familismo: tutti i membri della ditta erano tra loro imparentati, sostiene l’accusa. Le aziende aprivano e chiudevano mantenendo gli stessi beni, la stessa struttura e lo stesso personale. La variazione riguardava solo il titolare.

I testimoni che sono stati in contatto con queste aziende cinesi delegavano loro le attività di confezionamento e rifinitura. Grazie alle loro parole sono stati riconosciuti quelli che si profilano essere i due i volti principali di questo sistema.

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